SALA ROSA ANTICO
pubblicazioni di DOCUMENTI/ RACCOLTE/ APPROFONDIMENTI/ TESTIMONIANZE
dell'Associazione Culturale Quintiliano

domenica 30 ottobre 2011

UN METODO PERICOLOSO

recensione di Davide Biagioni 

sul film A DANGEROUS METHOD di D. Cronenberg

commento per immagini 
di Dario Coppola



“Un metodo pericoloso”. Mai titolo fu più appropriato di questo.
Nell’immaginario collettivo siamo soliti, soprattutto noi studenti di psicologia, sentire persone non solo scettiche nei confronti di questa disciplina, ma chiaramente contrarie e solitamente impaurite e infastidite dall’idea che qualche analista “entri nelle loro teste”.
Non è un caso che il termine scelto in partenza non fosse infatti terapia, come spesso si usa oggi per rendere la pillola più dolce, ma analisi, una vera e propria analisi dell’altro.
Questo termine ha sempre ottenuto resistenze, e pochi si interessano e voglio sapere ciò che di mistico e pericoloso avvenga in quelle sedute.
Se ad oggi questa paura è decisamente immotivata e priva di fondamento, dal momento che tutto è evoluto, deontologico e regolamentato, possiamo essere certi che le cose fossero in termini leggermente diversi per questi “pionieri” della psicanalisi.

Con l’analisi la psicologia smette di essere sperimentale, come lo era stata fin dalle origini con l’apertura del primo laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia da parte di Wilhelm Wundt.

Il modello ora diventa relazionale, dando origine a quei filoni definiti “Psicologia del profondo”.

Modello relazionale vuol dire che non c’è una tecnica che si applica in modo standardizzato per ogni paziente; o per meglio dire le tecniche di analisi sono applicate all’interno di una vera e propria riflessione comune che avviene tra paziente e analista. Se oggi questa differenza di ruoli è ormai sedimentata e digerita, i primi poveri analisti, di solito tutti medici abituati ad intervenire in modo farmacologico o chirurgico, non erano abituati ad un tipo di Cura (prendersi cura) che coinvolgesse loro in prima persona come uomini.
L’analisi del transfert infatti era già stata ipotizzata da Freud stesso, mentre solo dopo la sua morte è stata ipotizzata quella del contro-transfert.
Insomma questi uomini tendevano a chiudere delle donne altolocate e con sintomi isterici in una stanza, da soli, per un paio d’ore, ogni giorno, e farle parlare a ruota libera, meglio se lo facevano in riferimento a eventi sessuali repressi. Alcuni, come  Sándor Ferenczi,(allontanato poi dalla scuola analitica), erano anche forti sostenitori del contatto fisico in queste sedute.

Non è difficile immaginare come tutta la vasta gamma dei professoroni in medicina del tempo osteggiassero questi metodi, dal momento che in quegli anni erano già iniziati studi importanti e rilevanti di neuroanatomia e neuropsicologia, deterministici, sicuri e morali.
In questo quadro di riferimento si muovevano uomini, uomini e ancora uomini, ma si sa, dietro ogni grande uomo c’è una grande donna, e lo stesso vale per uno dei grandi Maestri del sospetto.

Freud, sessuomane e probabilmente omosessuale, aveva ipotizzato che l’unica forza pulsionale che spingesse l’uomo fosse quella del piacere, e possibilmente il piacere di tipo sessuale. Era inamovibile su questo punto, dal momento che in ogni suo caso clinico il nucleo nevrotico si scioglieva quando si giungeva all’evento sessuale subito, fosse esso reale o immaginario.
E ancora una volta si sa che le donne sono un passo avanti nell’ambito della sensibilità, tanto che ad oggi la psicologia è definita una disciplina “femmina”.

E’ stato così che grazie all’intervento di Sabina Spielrein, (nel film A DANGEROUS METHOD interpretata da un’anoressica Keira Knightley), nevrotica ebrea svizzera, sensibilizza Freud su uno dei temi più importanti e delicati che faranno fare un vero e proprio salto di qualità alla sua dottrina.

 
 Il tema di cui parlo è il principio o pulsione di morte. Nel 1920 pubblicherà infatti il saggio “Al di là del Principio di Piacere” e da quel momento in avanti, amore e aggressività saranno inequivocabilmente legati uno con l’altro e la teoria analitica viene riconosciuta e accettata dai più.
Lasciando da parte la provocazione finale del regista che vede Jung come il più grande psicologo mai esistito, è indubbio che l’abilità e la potenza rappresentativa di questo film siano inequivocabilmente di alto livello.

Il film di Cronenberg è storicamente abbastanza corretto, ben interpretato, ampi i richiami a frasi famose e scene reali indimenticabili, paesaggi e costumi ricercati e precisi, e tanto tanto sentimento.
Il modo in cui vengono messi in scena i più grandi collanti della società umana, amore e amicizia e matrimonio, denotano ancora una volta la mano di un regista esperto nel settore tecnico e maturo nella vita.
Davide Biagioni,
socio-fondatore Associazione Quintiliano
(studente UniTO- Psicologia)

giovedì 17 febbraio 2011

Il film di Saverio Costanzo visto con i nostri occhi

LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI
recensione di Dario Coppola

Nella matematica, mentre un numero maggiore di 1 che abbia più di due divisori si dice composto, un numero naturale maggiore di 1 che sia divisibile solo per 1 e per se stesso si dice un numero primo. 
Si definiscono poi numeri primi gemelli due numeri primi che differiscono tra loro di due. Fatta eccezione per la coppia (2, 3), questa è la più piccola differenza possibile fra due primi (esempi di coppie di primi gemelli: 5 e 7, 11 e 13, e 821 e 823). 
Per sua natura un numero primo è solo, ma può avere un gemello. Così com'è per il protagonista del romanzo di Paolo Giordano, e del film di Saverio Costanzo, Mattia. Si è parlato non troppo bene del film, e molto meglio del romanzo. Anche se non è da me condivisibile quanto detto nel trailer del film sul fatto che il libro abbia appassionato tutte le nuove generazioni, lo ritengo un bel romanzo e, a mio avviso, anche il film è molto bello, peraltro sceneggiato dallo stesso Giordano insieme a Costanzo. Di lui già avevo apprezzato Private (2004) e In memoria di me (2007).
Troviamo nel film un sound, che richiama atmosfere gotiche come quelle dei Goblin in Profondo rosso di Dario Argento, e una città, Torino, già scelta proprio per il suo film da Argento stesso avvolta da Costanzo, in un'autunnale pioggia dal fascino irreale e inquietante, finché non si diradano le nubi dell'oblio.
Al di là della simbologia della matematica, che campeggia nel romanzo e un po' meno nel film, sono rimasto attratto dall'aria enigmatica della sceneggiatura, e colpito da due elementi: lo sguardo vitreo, che si evidenzia particolarmente nell'espressione dei due attori che rappresentano Mattia adolescente e adulto; i giochi di campo, realizzati dalla cinepresa in modo da rendere sfocato lo sfondo in alcuni momenti fondamentali. Mattia è inquietante, spaventa anche la sua stessa madre. Nella caligine della mia mente sono affiorati l'immagine del perturbante di Freud, che emerge da racconti quali L'uomo della sabbia (Der Sandmann) di E.T.A. Hoffmann del 1815, e il ricordo della Gradiva di Wilhelm Jensen, libro che tratta di un bassorilievo, raffigurante una donna pietrificata dalla lava di Pompei, il quale risveglia nel ricordo dell'archeologo, personaggio maschile di questo racconto del 1903, la donna rimasta pietrificata nel suo inconscio. Alice, protagonista femminile del film, è ambigua o ambivalente: è l'alter ego di Mattia. E' però soprattutto l'alter ego di Michela, la gemella di Mattia.


Alice viene rappresentata pallida e problematica, anche sola, come un numero primo.
Nello shakerare le tre età (infanzia, adolescenza, maturità) a un certo punto - culminante - del film giunge la scena risolutrice dell'enigma ove s'incontrano i due elementi di cui parlavo:
il gioco di campo, con la messa a fuoco, che rivela ad Alice - nel quadro di famiglia - la gemella di Mattia, ossia Michela, la quale ha anch'essa uno sguardo vitreo: i suoi occhi sono fissi, grossi, troppo grossi. Sono gli stessi di Mattia, dopo la tragedia, all'inizio della sua adolescenza, da quando lo si vede entrare in classe sino alla fine del film. Gli attori che interpretano i due gemelli da piccoli non erano segnati dalla tragedia. Nel quadro di famiglia sono invece impressi quegli occhi, che rivelano la vera storia di Mattia e la presenza di quella donna che è rimasta pietrificata in lui e che Alice scopre. Alice è simbolo sia di Michela, per Mattia, sia di se stesso, inscindibile dalla gemella anche dopo la di lei scomparsa. Alice è dunque la fotografia di Michela e Mattia stessi: non a caso fa la fotografa.
Alice, perciò, è androgina riproducendo sia Michela sia Mattia, come si vedrà nell'allucinazione dal fruttivendolo; il rapporto tormentato con Viola, che preludeva anche a un amore omosessuale, sarà superato dalla realtà, ancora una volta fotografata da Alice, nella quale Viola sposerà un uomo potente, ricco ma non bello.
Correlativi oggettivi della tragedia e del male incombente sono il tatuaggio, la caramella sporca che Alice è costretta a ingoiare, il suo esser resa zoppa da un incidente, i tagli sul corpo che accomunano Mattia e Alice. La tragedia ineluttabile incombe come un mostro lungo la narrazione filmica:
quella famelica sete degli occhi del mostro, interpretato dall'adulto che gioca alla festa dell'amico di Mattia, rappresenta il momento della tragedia stessa; da quell'attimo, che non fuggirà più, Mattia cerca di fuggire, di sparire ma chi scompare è Michela, che rimane ibernata o pietrificata in Mattia stesso.

Il mostro era, già all'inizio del film, rappresentato nel Minotauro ucciso da Teseo, nella recita scolastica della classe di Mattia, il quale ha il presagio della tragedia.


Mattia, percorrendo le stagioni della vita nel labirinto delle età fatto di ricordi e traumi che si susseguono come in quella passerella luminosa della scuola e, soprattutto, come in quella galleria buia e umida di pioggia che egli deve attraversare, avrà il coraggio di uccidere quel mostro che porta con sé.

Alice, come Arianna nel mito, lo aiuterà attraversando anch'essa quella selva oscura, quel fitto fogliame del tempo, fornendogli il suo filo che gli consentirà di ritrovare le soluzioni al problema della solitudine impostagli dalla tragedia.

Nel film, i protagonisti dopo sette anni si ritroveranno a Torino, città nella quale Alice è stata piantata in asso - o meglio: in Nasso, per riprendere il mito di Teseo.

Un ultimo enigma: non riuscivo a capire il nesso fra Bette Davis eyes di Kim Carnes e il film. Invece, ora mi pare chiaro, cristallino, proprio come gli occhi stessi di Mattia, o quelli glaciali, impressionati e impressionanti di Michela, così rappresentati nell'iperrealista quadro di famiglia, a mo' di fotografia. Quegli occhi sono cantati in modo suggestivo dalla voce di Kim Carnes il cui testo sembra descrivere proprio Michela:


I suoi capelli sono biondi
come quelli della Harlow
le sue labbra una dolce sorpresa
le sue mani non sono mai fredde
lei ha gli occhi di Bette Davis
lei metterà su la sua musica
tu non dovrai pensarci due volte
lei è pura come la neve di New York
lei ha gli occhi di Bette Davis
e lei ti prenderà in giro
ti metterà a disagio
farà del suo meglio per compiacerti
lei è precoce
e sa benissimo quanto ci vuole
per fare arrossire una prostituta
lei sospira come Greta Garbo
lei ha gli occhi di Bette Davis
lei ti permetterà di accompagnarla a casa
questo stuzzica il suo appetito
lei metterà su di te il suo trono
lei ha gli occhi di Bette Davis
lei farà una capriola su di te
lei ti farà rotolare come fossi un dado
fino a che ne uscirai triste
lei ha gli occhi di Bette Davis
lei ti esporrà, quando abbindola i tuoi piedi
con le briciole che lei ti lancia
lei è feroce
e sa benissimo quanto ci vuole
per fare arrossire una prostituta
tutti i ragazzi pensano che lei sia una spia
lei ha gli occhi di Bette Davis
e lei ti prenderà in giro
ti metterà a disagio
farà del suo meglio per compiacerti
lei è precoce
e sa benissimo quanto ci vuole
per fare arrossire una prostituta
tutti i ragazzi pensano che lei sia una spia
lei ha gli occhi di Bette Davis.

Questa bellissima canzone degli anni ottanta è un quadro nel quadro, una citazione che ancora pare rispondermi: Bette Davis fu una grande attrice famosa per i suoi occhi, che la resero famosa nel celebre film, da brivido, Che fine ha fatto Baby Jane?

E che fine ha fatto Michela per Mattia?
Dario Coppola



Hanno partecipato come comparse al film gli studenti del Liceo Alfieri e Filippo, nipote del prof. Coppola, nel ruolo di Teseo che uccide il Minotauro, all'inizio del film.

per vedere il nostro servizio andare al seguente link
http://lcquintiliano.blogspot.com/2009/12/lalfieri-set-cinematografico.html

domenica 16 gennaio 2011

Le nostre recensioni: Nemici di Klasse (2008)

Amici... di classe (dal blog Azione del Popolo)

NEMICI DI KLASSE
performance in scena il 28 novembre 2008
al Teatro San Luca di Torino
con Fabrizio Vespa e Michele Di Mauro

Conosciamo ormai il loro feeling sul palcoscenico, il loro stile sincronizzato, la loro capacità comunicativa che raggiunge ogni spettatore. Stavolta il tema non era più il techno-sufi, già apprezzatissimo in passato, ma l'attualità, la realtà e la virtualità che viviamo per strada, sulle piazze, nei cortei, in tv, sul pc, ecc. Centinaia di immagini provocatorie, pur mute, hanno parlato - anzi urlato - sullo sfondo attraverso una sapiente retorica delle associazioni, interpellando la sensibilità degli spettatori: in esse erano uniti, a mo' di ossimoro (una delle tecniche più amate da Pasolini), i volti dei manifestanti No Global, No TAV, le vittime della ingiusta violenza inaudita (stile Bolzaneto e Diaz), in contrasto con i volti acqua-sapone (e pannolini) dei candidi conduttori di Uno Mattina, di Bush, della pseudo-nobiltà d'avanspettacolo che riempie i contenitori e i bidoni della spazzatura televisiva e i ritrovi mondani... Insomma: la sempre attuale, anche se oggi degradata e poco dignitosa, lotta di classe di marxiana memoria, in salsa meno piccante, perché oggi prevale il retrogusto della classe media che tutto appiattisce e spegne, ma non per questo le classi sociali sono tutte uguali, anzi sono nemiche... nemiche di klasse, appunto! Nello spettacolo, dunque, si è voluto dare qualche colpo nello stomaco, allestendo un gioco solo apparentemente pirotecnico, che risvegliasse, in realtà, dal profondo torpore la sensibilità del pubblico. Come? Attraverso i testi della letteratura! Ancora una volta noi siamo debitori dei classici, noi che come nani continuiamo a camminare su quelle loro spalle da giganti. Bukowski , Levi ancora hanno ancora mosso così le nostre coscienze, mimetizzati fra i contemporanei. Il tutto grazie alla bravura di Di Mauro che, con la sua voce, risveglia, evoca, caratterizza, ironizza ritmicamente sulla base della colonna sonora, dipinta fluidamente per lui, da un pittore del suono qual è Fabrizio Vespa.
Dario Coppola
Descrizione ufficiale del lancio stampa
Parole e Musiche da un autoradio-bomba con Michele Di Mauro e Fabrizio Vespa.Un reading-spettacolo che contiene Mark Leyner, Yassir Benmiloud, Aldo Nove, Charles Bukowski, Amelie Nothomb, Giorgio Manganelli, Nigel Williams, Wislava Szimborska e Primo Levi.60 Minuti di letteratura in musica per ritrovare nelle parole e nei suoni di altri ciò che fa di un interesse pesonale un valore collettivo, di un'attenzione particolare un atto di denuncia, di uno sguardo mirato un colpo di pistola.Sul palco un ATTORE e un DJ. Insieme danno vita al progetto COMPRO ORO.COMPRO ORO è un progetto nato all'inizio del 2007 da un'idea del Circolo dei Lettori di Torino. E' un reading sonorizzato dal vivo, con alcune caratteristiche particolari. Infatti, in ogni esibizione viene presentata un'antologia di testi di varia provenienza mentre durante la lettura la colonna sonora è fornita da dischi e cd mixati all'occorrenza. Il risultato è che il materiale letterario è manipolato e - si potrebbe dire - remixato esattamente come il materiale sonoro.





Fabrizio De Andrè nel decennale della scomparsa (2009)

Nell'occasione del decennale della morte di Fabrizio De André, volentieri pubblichiamo - su richiesta - queste due suggestive riflessioni e testimonianze di un nostro studente, Jacopo Villani, e di suo padre, Sig. Maurizio Villani, che ringraziamo per la collaborazione e per l'idea.
(l'immagine è tratta da http://www.quattrostracci.net/)
Avevo poco più di undici anni, fui accompagnato dal mio fratello maggiore verso quella che sarebbe stata la mia prima giornata da scout.
In quegli anni nella mia borgata non esisteva un riparto di lupetti, più adatto alla mia età, per questo fui accolto come una mascotte fra capi riparto e scouts molto più grandi di me.
Di quel pomeriggio non ricordo quasi nulla. Non ricordo i dettagli, i volti, i nomi, le persone, le cose.
Ricordo solo che in un certo preciso momento qualcuno prese una chitarra e cominciò a suonare, e che tutti gli altri cominciarono a cantare.

Le parole che riuscii a capire dicevano :

Era partito per fare la guerra
Per dare il suo aiuto alla sua terra
Gli avevano dato le mostrine e le stelle
E il consiglio di vendere cara la pelle

Fu per me l’inizio di una grande passione e di una grande ricerca.
La passione per la poesia e la musica di Fabrizio De André.
La ricerca dei suoi temi, e contemporaneamente di me stesso.

Molto di quello che sono stato, di ciò che sono e (spero) sarò è nato in quel lontano pomeriggio.
Molte delle cose che vedo e che sento dipendono da quella ricerca, da quella passione, dalle parole di Fabrizio.
Rifiuto la guerra, ho dichiarato la mia obiezione di coscienza molti anni fa.
Rifiuto il conformismo, non sono schierato, non ho paura di pensare in maniera differente.
Non giudico quasi mai, soprattutto non giudico quando non conosco i fatti. Quasi mai, appunto.
Simpatizzo per gli ultimi : gli indiani, gli emarginati, i sardi, gli albanesi, gli zingari più o meno felici, i diseredati, gli homeless, i migranti.
Sono per il mantenimento delle identità culturali dei popoli, contro le semplificazioni e le omologazioni.
Penso che Gesù di Nazareth sia stato un grande rivoluzionario.
Non ho certezze, ma un sacco di dubbi su tutto e su tutti.

Quando Fabrizio è morto ho pianto, almeno quanto piansi tre mesi prima, quando morì mio padre.
Quel giorno ho avuto la sensazione che fosse scomparso il mio secondo padre, senza provare il timore che il mio vero papà potesse, in questo modo, offendersi : li ho pensati in un luogo lontano, che non riuscivo e non riesco ancora a definire.

Da lì ancora oggi immagino che continuino a guidarmi.


Maurizio Villani


Un'immagine nei ricordi della mia infanzia : mentre La canzone di Marinella mi culla dolcemente vedo gli occhi di mio padre accendersi di amore.
Da quella visione stupenda (che rimpiango tuttora) potevo rendermi conto dell'importanza che ha avuto Fabrizio De André nella vita di mio padre.
Posso dire che fu proprio mio padre a farmi scoprire Fabrizio.
A volte imbracciava la chitarra, e se le note non suonavano bene non importava, perchè la musica era così profonda che niente mi avrebbe distolto da quello spettacolo.
Mio padre non fu l'unico a tramandarmi questo piacere. All'età di dodici anni cominciai, grazie al mio professore di musica, a cogliere il vero significato di queste canzoni e se solo potessi ancora ricontattarlo vorrei ringraziarlo profondamente.
Le sue canzoni hanno moltissime interpretazioni che spesso io stesso ho sentito mie : questo è l'effetto che ha De Andrè sulla gente, riesce a fare emergere emozioni che normalmente
non escono da sole e sopratutto riesce ad informare la gente, perchè i suoi testi erano un enorme contenitore di storia, politica, religione, poesia, letteratura e cinema.
E' noto che Fabrizio amava essere contro, un vero bastian contrario, lo capiamo anche dal titolo di una sua raccolta, "In direzione ostinata e contraria".
Questo tratto del suo carattere portò Fabrizio ad essere amato ma anche odiato, ricordiamo infatti le diverse censure applicate alle sue canzoni.
Nonostante questo continuò a comporre musica fino a diventare uno dei piu importanti cantatutori italiani.
Questo è un mio piccolo pensiero su Fabrizio, riconosco che ci vorebbero altre migliaia di pagine per ricordare questo grande uomo, ma penso di essere "forse troppo stanco e forse troppo occupato" per farlo.

Jacopo Villani

Le Tesine: PERCORSI DELLA COSCIENZA (2009)

Davide Biagioni (Maturità 2009, Liceo classico Alfieri, Torino)

Il termine coscienza deriva dal latino cum + scire (sapere insieme) e indica il sapere consapevole condivisibile.

Indicava, almeno originariamente, l’equilibrio fra le tre dimensioni che gli antichi pensavano dominassero l’uomo: quella della mente, situata in una particolare regione dell’encefalo, quella istintivo-motoria, situata alla base della colonna vertebrale, e quella emotiva situata nel plesso solare. Si pensava che questo equilibrio consentisse all’uomo di elevarsi rispetto a tutti gli altri esseri poggiando su una forte ragione, e che uno squilibrio di queste dimensioni portasse alla pazzia.
Con lo stesso termine oggi si identificano diversi significati che mutano rispetto alla disciplina per la quale sono usati. Nel linguaggio comune, infatti, la coscienza è una facoltà immediata che consente di avvertire, comprendere, valutare i fatti che si verificano nella sfera dell’esperienza individuale o si prospettano in un futuro più o meno vicino; per la filosofia, invece, la coscienza diventa una discussione sulla morale; per la letteratura, inoltre, è una questione etica; e per la scienza, infine, un insieme di neurotrasmettitori.

Come si origina la coscienza?
Le teorie più accreditate sono due e, rispettivamente, sono il risultato degli studi della professoressa di farmacologia all’università di Oxford Susan Greenfield e del professore di biologia cognitiva Christof Koch.
Entrambi gli scenziati concordano sul fatto che la coscienza si generi grazie ai neuroni situati nel cervello e che gli elementi che la influenzano non sono univoci, ma poliedrici. Il problema di fondo, però, consiste nel fatto che si sa ancora troppo poco su come avvengono le reazioni chimico-elettriche all’interno del cervello ed è quindi possibile formulare varie ipotesi basandosi sulle neuroscienze, sui fenomeni patologici e sulla psicologia. Quello che, tuttavia, si può tentare di individuare sono i correlati neuronali della coscienza, detti NCC, vale a dire i recettori che intervengono, ad esempio, quando ci rendiamo conto di vedere un cane o ascoltare un suono.





I due modelli
Fin dal 1988 Koch ha affrontato degli studi con Francis Crick arrivando a capire che per ogni precetto che il nostro cervello percepisce si forma un NCC. Ogni NCC è differente e se ne forma uno specifico per ogni differente immagine, suono, gusto o sensazione. Se un NCC è interrotto o perturbato esso scompare.
Parlando con termini fisiologici nel momento in cui si vede entrare una persona in una stanza un gruppo di neuroni piramidali (si pensa ne bastino un milione), che sono i neuroni in grado di comunicare a grande distanza, inizia una fitta rete di conversazioni che passano dalla corteccia posteriore, dove sono elaborati gli stimoli visivi, a quella frontale dove vengono pianificati e dove prendiamo coscienza di ciò che vediamo.
Alcuni NCC predominano sugli altri. Se, ad esempio, si sta osservando la persona entrare nella stanza ma si sente anche una melodia, la melodia ha superiorità sull’oggetto visivo, questo perché le congregazioni di neuroni formate da un suono sono più forti di quelle formate dalla vista. Questo non vuol dire che noi smettiamo di osservare quella persona ma che siamo coscientemente più portati ad ascoltare la melodia.
La coalizione si alimenta se non riceve la perturbazione di altre coalizioni.
La differenza dei due modelli sta nel modo di comunicare tra i neuroni. Secondo Koch gruppi di neuroni collegano la corteccia posteriore a quella inferiore passando da un livello più interno del cervello ad uno più esterno, secondo Greenfield, invece, la comunicazione avviene attraverso una comunicazione separata dei neuroni che comunicano grazie alla secrezione di sostanze chimiche.
Se, fisicamente, può sembrare un dettaglio sorvolabile, nella praticità della vita morale, il fatto che la coscienza sia creata nello strato più esterno esattamente come vista, olfatto e ogni altro senso, ha portato a sminuirla e ad accomunarci molto più di quanto pensassimo agli animali. Se la coscienza fosse, invece, frutto della parte ancora inesplorata del cervello sarebbe nobilitata, ma una persona in coma ad esempio, con tutte le facoltà intatte, non potrebbe essere considerata cosciente, giustificando così l’eutanasia.



Accezioni del termine coscienza
Il termine, nella storia della filosofia, ha mutato le sue accezioni e, a partire dallo stoicismo (dal III sec. a.C. l’antico stoicismo, dal II al I sec. a. C. il medio, dal I al III sec. d.C. la nuova Stoà) fino al neoplatonismo (dal III al VI sec. d.C.), ha indicato l’interiorità dell’anima nel continuo dialogo con se stessa.



Nel De ira di Seneca (4 a. C. - 65 d.C.), trattato diviso in tre libri nei quali l’autore analizza la genesi, la natura e gli effetti funesti di tale vizio (primo libro), i vari modi di curarlo (II libro), i mezzi per evitarlo, frenarlo e placarlo (terzo libro), vengono suggeriti degli utili antidoti e uno tra questi, la ragione, secondo Seneca è un elemento fondamentale che può portare all’esame di coscienza da compiersi nell’intimità e nell’oscurità, alla fine della giornata: ciò permette di equilibrare l’agire dell’uomo, un consiglio certamente ripreso dalla filosofia religioso-magica di Pitagora, il quale era stato trapiantato a Roma dalla setta dei Sesti.
Dice Seneca : “Faciebat hoc Sextius, ut consummato die, cum se ad nocturnam quietem recepisset, interrogaret animum suum: -Quod hodie malum tuum sanasti? Cui vitio obstitisti? Qua parte melior es? -Desinet ira et moderatior erit, que sciet sibi cotidie ad iudicem esse veniendum

(De ira, III, 36, 1-4).









Nel corso della storia del pensiero il filosofo cristiano Agostino (354-430) ha utilizzato spesso il termine coscienza soprattutto nelle Confessiones (397-401): per arrivare all’alétheia l’ anima deve iniziare il dialogo interiore con se medesima e giungere così alla luce della meditazione; questa esperienza ha un risvolto morale ed è proprio la coscienza il luogo nel quale Agostino ubica questo colloquio interiore: egli infatti parla di “voce della coscienza”.
La filosofia agostiniana prende spunto dalla teologia paolina che parla della coscienza definendola una sicura conoscenza (termine che invece deriva da cum + gnoscere) dei fondamenti della retta volontà, in modo che interrogando la coscienza si può conoscere con certezza il modo esemplare del proprio comportamento, l’ideale etico, la retta via che viene continuamente abbandonata a causa della fragilità umana che consegue dal peccato originale.





Il filosofo Montaigne (1533-1592), che fu maestro sia di Cartesio (1596-1650) sia di Pascal (1623-1662), nei suoi Saggi (1580) parla di voce della coscienza e la definisce una serie di convinzioni, derivate dalla società, che entrano a far parte della conoscenza già dall’età infantile fino ad assurgere al ruolo di legge normativa nell’ambito etico; perciò queste norme non hanno affatto una natura interiore ma esterna pur albergando nell’intimo di quella che viene comunemente definita coscienza.










Cartesio inaugura il nuovo significato di coscienza intesa come consapevolezza del soggetto riguardante il proprio pensiero. Nel suo cogito ergo sum res cogitans, e proprio nell’ ergo sum res cogitans, si definisce cosa sia la coscienza: poiché penso sono e sono una sostanza che pensa, dunque cosciente di essere: è l’unica vera coscienza. Nelle prime due Meditazioni metafisiche Cartesio parla di coscienza dicendo che il soggetto ha una certezza indubitabile e diretta proprio attraverso il cogito.









Locke (1632-1704), da buon empirista, si scaglia contro la scuola platonica la quale invece sosteneva tenacemente l’innatismo (come anche Cartesio, in parte) e sviluppa l’insegnamento di Montaigne parlando di conoscenza e coscienza come derivanti dalla sola e mera esperienza.











Hume (1711-1776), il filosofo di Edimburgo, prosegue sul filone di pensiero già delineato da Locke e sostiene che anche se il soggetto pensante può giungere col solo pensiero ai confini dell’universo non per questo motivo potrà mai uscire dalla propria coscienza perché non potrà fare mai i conti con ciò che sta al di fuori delle proprie impressioni sensibili o delle idee della ragione.



Kant (1724-1804), nella Critica della ragion pura critica l’impostazione degli empiristi e anche se sostiene che Hume lo abbia svegliato dal sonno dogmatico confuta le teorie dell’idealismo e dice che nella coscienza empirica che è diversa tra i soggetti , è presente anche una forma pura di coscienza, l’appercezione pura (Io penso) che ha una funzione di conoscenza uguale per tutti gli uomini. Le forme sintetiche a priori, e quindi pure, dell’intelletto sono articolate secondo le dodici categorie delle quali l’Io penso è proprio l’elemento unificante. Perciò questa funzione di conoscenza pura e universale è uguale per tutti i soggetti trascendentali (Kant parla di questo nella ”deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto” contenuta nella prima Critica).
Nella seconda Critica, ovvero la Critica della ragion pratica, egli mette al centro della sua visione morale autonoma (contro ogni concezione eteronoma della morale stessa) la coscienza, descrivendola come una voce interiore che si oppone ai sensi. Nell’interiorità del soggetto sta dunque un valore assoluto universale della legge morale la quale emerge dalla libertà e vi giunge alla fine del suo percorso, ossia la legge morale è un mezzo e la libertà è un fine.
la libertà e la legge pratica incondizionata risultano dunque reciprocamente connesse. Qui io non domando se esse siano anche diverse di fatto o se una legge incondizionata non sia piuttosto la semplice coscienza di sé di una ragion pura-pratica e se questa sia identica al concetto positivo della libertà; ma domando dove ha inizio la nostra conoscenza dell’incondizionato pratico, se dalla libertà o dalla legge pratica. Non è possibile che prenda inizio dalla libertà, di cui non possiamo né aver coscienza immediata, perché il primo concetto di essa è negativo, né conoscenza mediata dall’esperienza, perché l’esperienza non ci dà che la legge dei fenomeni, e con ciò il meccanismo della natura, che è l’opposto puro e semplice della libertà. E’ quindi la legge morale della quale diventiamo consci (appena formuliamo le massime della volontà), ciò che ci si offre per il primo e che ci conduce direttamente al concetto della libertà[…] ” .
(dalla Critica della ragion pratica)

Nel 1793 Kant scrive, successivamente alla terza Critica, un’opera, considerata la quarta Critica, intitolata La religione nei confini della pura ragione , che introduce con una lettera nella quale il filosofo di Koenigsberg ne descrive il contenuto sinteticamente, dicendo che se la prima Critica era la risposta alla domanda della metafisica (che cosa posso conoscere?), la seconda Critica era la risposta alla domanda dell’etica (come devo agire?), questa opera è la risposta alla domanda della religione (cosa posso sperare?). Proprio qui viene ripreso il concetto di religione naturale (deismo) contrapposto al concetto di religione rivelata (teismo) e, per Kant, la religione non è il fondamento della morale ma è il contrario, la morale può condurre alla religione; Kant si pone al confine della religione naturale guardando all’orizzonte della religione rivelata elaborando la famosa teoria dei cerchi concentrici.
La morale, essendo fondata sul concetto dell’uomo come essere libero, il quale, appunto perché tale, sottopone se stesso, mediante la propria ragione, a leggi incondizionate, non ha bisogno né dell’idea di un altro essere superiore all’uomo per conoscere il proprio dovere, né di un altro movente oltre la legge stessa per adempierlo. Tuttavia è colpa dell’uomo se si trova in lui questo bisogno, al quale, quindi, nessun altro può porre rimedio;Infatti ciò che non scaturisce da lui stesso e dalla sua libertà non può valere come surrogato per ciò che manca alla sua moralità. Questa non ha quindi bisogno del sostegno della religione, ma è autosufficiente grazia alla ragion pratica-pura[…] ”.
(da La religione nei confini della ragion pura pratica)

Perciò Kant invita il soggetto ad agire secondo la propria coscienza spinto dall’imperativo categorico.

Proprio dal pensiero kantiano si sviluppa l’idealismo tedesco che parla della coscienza evidenziando nel soggetto l’Io assoluto, così definito da Fichte (1762-1814) e anche dal primo Schelling (1775-1854). La coscienza coincide con l’Io il quale deriva dall’esperienza sensibile e perciò è un Io empirico. Esso viene in un secondo momento limitato da ciò che l’Io originario oppone a se stesso ossia il non-Io: ciò significa che la riflessione filosofica è l’unico campo in cui può essere attinto il sapere e il conoscere e, perciò, è l’unico luogo della coscienza.






Hegel (1770-1831), maggior esponente dell’idealismo tedesco, rifiuta radicalmente la concezione di Fichte e Schelling e parla della coscienza lungo i capitoli della sua prima opera, la Fenomenologia dello Spirito. Essa è proprio, in qualche modo, la sintesi della storia del pensiero inteso proprio come coscienza, è il “romanzo” che ha per protagonista la coscienza, è il palcoscenico sul quale lo Spirito, che nel corso del tempo e nello spazio ha assunto diverse figure e sembianze, parla come attore protagonista e unico con se stesso e di se stesso. E lo Spirito è proprio la coscienza, finché non si realizza come sapere assoluto, ossia fino a quando si comporta come soggetto che lotta dialetticamente con l’oggetto.
Hegel inizia definendo la coscienza un “atteggiamento” dello Spirito verso ciò che è fisicamente e naturalmente esterno a essa, per poter conoscere la realtà sensibile; e la ragione, che in questa prima fase è ancora soltanto coscienza, ha questo scopo rispetto alla natura (Cartesio avrebbe detto che così la res cogitans conosce la res extensa, ossia il pensiero conosce l’estensione fisica). Questa prima operazione nella Fenomenologia dello spirito viene svolta nella e dalla coscienza naturale, la quale deve prima fare esperienza della inadeguatezza delle figure dei fenomeni del sapere apparente.
Successivamente la coscienza naturale diventa auto-coscienza nell’esperienza dello Spirito cioè coscienza di sé: si tratta della consapevolezza della propria superiorità da parte del soggetto (che è lo strumento dello Spirito); perciò la natura, i sensi, e ogni materia sono subordinati all’azione dello Spirito. Per operare questo è necessario tuttavia giungere alla consapevolezza realizzata storicamente, ovvero nella libertà, che è l’espressione dello Spirito. Tale processo dialettico è la risultante della guerra fra le autocoscienze che non ammettono l’una all’altra di essere tali: infatti le autocoscienze vivono una contraddizione poiché sono dipendenti e, al tempo stesso, indipendenti reciprocamente; questa lotta porta alla formazione, nel tempo e nello spazio, della storia stessa. L’autocoscienza, che è identità fra gli opposti ossia il soggetto e l’oggetto che costituiscono l’Io che si sdoppia , si esprime in una figura che è quella della lotta, fino alla morte, fra due diverse autocoscienze che non vogliono riconoscere reciprocamente la superiorità l’una all’altra e che quindi la attribuiscono ognuna a sé. Questa pretesa fallisce e subentra la morte come negazione, come antitesi: questa figura prende il nome di relazione fra signoria e servitù (Marx svilupperà questo tema che confluirà nella lotta di classe, e che deriva a sua volta proprio dalla lezione hegeliana dalla quale egli aveva ricavato il concetto di coscienza di classe, come concretizzazione del troppo astratto concetto di coscienza). Una delle autocoscienze che ha rinunciato a lottare per sopravvivere è dunque sottomessa all’altra la quale, invece, trae vantaggio da questa sottomissione e fruisce dei prodotti della prima autocoscienza. Perciò, se la figura del servo era prima in svantaggio, ora producendo forme di vita per la figura del padrone ha in pugno proprio chi pensava di sottometterla: così avviene una crescita spirituale che forma ciò che la natura presenta in modo caotico e ordina, reprimendo, le tendenze primordiali della coscienza. Così si origina la figura della coscienza infelice, ben rappresentata dalla religione ebraica, inizialmente, e, successivamente, dal teocentrismo cristiano d’epoca medioevale: c’è una bipartizione della coscienza che, da un lato, è coincidente col Dio trascendente e, dall’altro, secondo il soggetto umano dotato di fede, è la negazione dell’Io; il soggetto vorrebbe annullarsi nella trascendenza stessa di Dio ma questa operazione non gli riesce e così subentra l’infelicità della coscienza che si percepisce inutile di fronte all’assoluto. Hegel elenca ogni tentativo della coscienza infelice di negarsi nel trascendente: l’ascesi, la mistica, i sentimenti devoti, la missione etica e religiosa mossa dall’amore per Dio, e la mortificazione dell’Io. L’infelicità sarà superata quando la coscienza riuscirà a rinvenire Dio non più in se stessa ma fuori di sé, ossia nel mondo esterno; quindi la coscienza coinciderà con la ragione dopo che ha abbandonato la fede che la rendeva infelice. Infatti la fede nel Dio personale e trascendente al tempo stesso non era che un’alienazione, cioè un’antitesi da superare. Questa idea sarà ripresa dalla sinistra hegeliana che parlerà della coscienza infelice come esperienza religiosa primitiva che non poteva che fallire storicamente (si pensi alle crociate). Dall’autocoscienza, che culmina nella coscienza infelice, si passa allo stadio della ragione e dunque la coscienza si rivolge sia alla natura sia alla società, cercando d’ora in poi il concetto.






Freud (1856-1939) apre il Novecento con l’opera Interpretazione dei sogni e inaugurando il metodo della psicoanalisi che si basa su una opposizione fra mondo conscio e mondo inconscio mediato dal mondo preconscio; Freud distingue la prima topica (conscio/preconscio/inconscio) dalla seconda (Es/Io/Super-Io); L’Es, in tedesco, è un pronome neutro della terza persona singolare, perciò ha un carattere impersonale che indica la materia informe e originaria della psiche che ancora deve distinguere il bene e il male, ma che risponde al principio del piacere. Perciò nel processo della coscientizzazione il Super-Io è proprio la coscienza etica in cui sono chiari i confini tra ciò che si ritiene giusto o sbagliato e che deve guidare le azioni del soggetto; L’Io è l’organizzazione della personalità del soggetto che risponde a queste divisioni interne e che giunge a costruirsi come tale.
Freud parla del sogno come momento nel quale l’esperienza della coscienza diurna viene introiettata e alterata; la coscienza onirica è tuttavia slegata dall’adattamento all’ambiente reale ed è dominata dalle leggi che regolano l’affettività e che si discostano dalle leggi della ragione e da quelle sociali. Il soggetto nel sogno non vive più nello spazio e nel tempo e può essere al tempo stesso protagonista passivo e attivo della scena; il principio d’identità, cardine della logica, salta per il sognatore così come il principio di contraddizione. La coscienza onirica si esprime però nei simboli e Freud elabora una simbolizzazione onirica; persino nella vita diurna, che apparentemente è aliena dal sogno, Freud nota i cosiddetti residui di natura onirica: si continua a sognare sempre, anche se la vita cosciente nella quotidianità non illumina sufficientemente il continuo e ininterrotto atto onirico (riconoscibile in varie forme, dai lapsus agli atti mancati). Nell’opera Al di là del principio di piacere, Freud analizza le nevrosi causate dai traumi e definisce la coazione-a-ripetere. Essa non può essere determinata solo dal principio di piacere ma anche dalla pulsione di morte. Si tratta di una lotta della psiche, un conflitto che Freud riconduce alla guerra originaria tra due forze: Eros e Thanatos. Le due forze, una dinamica e vitale e l’altra statica e mortale, sono in combutta tra loro e attraverso la coazione a ripetere, e si esprimono nel comportamento del soggetto il quale si inserisce nel sistema del rapporto fra percezione e coscienza fino a mettere in relazione una nevrosi con il tempo in una continua ripetizione.





Nella letteratura italiana del Novecento, Italo Svevo (Ettore Schmitz, 1861-1924), parla come pochi hanno potuto fare prima della nascita della psicoanalisi, della coscienza nel suo terzo romanzo La coscienza di Zeno. Zeno Cosini è curato da metodi psicoanalitici e viene consigliato dal suo medico curante di scrivere un diario riassuntivo della propria esistenza. In questa analisi amara e ironica vengono appuntate le circostanze e i momenti dei suoi propositi vani ma precisi nei quali egli tenta di liberarsi dal vizio del fumo. Il caso porta Zeno a sposarsi e anche ad intraprendere una relazione adulterina; si leggono in rassegna , annotate nel diario, le circostanze attraverso le quali e per le quali il protagonista si lega anche a Guido, l’odiato e amato cognato, il quale sarà per errore portato dagli eventi al suicidio. Domina tuttavia la trama la malattia di Zeno che, quando sembra sopirsi, è pronta a rispuntare come in un agguato, secondo forme diverse quali l’ ipocondria, la malattia immaginaria, la malattia di comodo e vari condizionamenti esistenziali. Il male di Zeno Cosini è, in realtà, il male della sua coscienza: egli in questa analisi si autocompiace eccessivamente e inizia un percorso introspettivo che diventa un alibi per portarlo a tergiversare e a far passare il tempo. L’opera, che ha la struttura stilistica di un diario, si conclude dunque con la descrizione della Grande Guerra, la quale contrasta volutamente con il mondo interiore dell’Io finora scandagliato. Il vizio del fumo è un simbolo, una metafora che serve a Svevo soltanto per descrivere il comportamento di Zeno e la malattia della sua volontà. Mettendo in luce l’inettitudine del protagonista attraverso l’umorismo, si può penetrare meglio nei meccanismi della coscienza e analizzare ogni autogiustificazione del soggetto; inoltre Svevo riesce così a distaccarsi e arrivare a una accettazione del gioco casuale dell’esistenza che fa seguire imprevedibili realtà alle intenzioni del protagonista: nell’ironia e nella coscienza vanno, per lui, ricercati i soli e possibili metodi di difesa contro la società e le sue certezze che sono soltanto apparenze.






BIBLIOGRAFIA

- Georg Wilhelm Friedrich Hegel, “Fenomenologia dello Spirito”, La Nuova Italia
- Italo Svevo, “La Coscienza di Zeno”, Bur
- Luciano Nanni, “Leggere Svevo” , Zanichelli
- Adriano Bon , “Come leggere La Coscienza di Zeno, di Italo Svevo” , Mursia
- Sigmund Freud , “L’Interpretazione dei Sogni” , Bollati Boringhieri
- Aldo Manetti , “Storia della letteratura latina” , Juvenilia
- Dario Coppola , “Per una nuova scelta” , Firenze Atheneum
- Enciclopedia Garzanti di filosofia
- Giovanni Treccani , “Enciclopedia italiana di scienze , lettere e arti”

Davide Biagioni

Le Tesine: NATI DUE VOLTE (2009)

Giulia Scarpa (Maturità 2009, Liceo classico Alfieri, Torino)

Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi.
Giuseppe Pontiggia














Giuseppe Pontiggia nasce a Como nel 1934. Eredita dal padre, che muore quando il figlio è ancora giovane, la passione per i libri. Si impiega in banca e nel 1959 si laurea alla Università Cattolica di Milano con una tesi su Svevo. Negli anni sessanta lascia l’impiego in banca per dedicarsi all’insegnamento e a collaborazioni editoriali con le case editrici Adelphi e Mondadori: del periodo è L’arte in fuga (1968). Il romanzo che lo impone all’attenzione del pubblico e critica è Il giocatore invisibile (1978), cui seguono una nuova stesura della Morte in banca (1979), Il raggio d’ombra (1983), La grande sera (1989), le biografie immaginarie di Vite di uomini non illustri (1993) e Nati due volte (2000). Quest’ultimo romanzo è un inno alla solidarietà, una richiesta di un semplice sorriso: Pontiggia fa rivivere la sua esperienza personale, quella di un padre che vive accanto ad un figlio colpito da tetraparesi spastica. La volontà del padre, che soffre alla presenza di un mondo così distante, è semplice: vivere la normalità, giorno per giorno, tra la paura, la fatica e il dolore.










“AI DISABILI CHE LOTTANO NON PER DIVENTARE NORMALI MA SE STESSI”


“Chi è normale? Nessuno. Quando si è feriti dalla diversità, la prima reazione non è di accettarla, ma di negarla. E lo si fa cominciando a negare la normalità. La normalità non esiste. Il lessico che la riguarda diventa ad un tratto reticente, ammiccante, vagamente sarcastico. Si usano, nel linguaggio orale, i segni di quello scritto: “I normali, tra virgolette” oppure “i cosiddetti normali” (G. Pontiggia, “Nati due volte”, 2000, Oscar Mondadori pag.41)

Se fra i compiti della scuola c’è quello di elaborare nuove forme di cittadinanza, dell’integrazione della scuola e della conoscenza vanno analizzate utilizzando un indicatore più ampio, capace di segnalare se si sta operando per una produzione sociale di vicinanza o di lontananza. Siamo entrati nella società della conoscenza, che è la nuova materia prima, il capitale da spendere, da consumare, da accrescere per competere, è una società che accanto alle sue possibilità contiene alcuni rischi. Il problema etico, oggi, riguarda proprio l’utilizzo delle conoscenze, che possono creare categorie di differenza e sancire un processo di lontananza. L’accesso alle nuove tecnologie, che supportano il processo di diffusione della conoscenza, non è democraticamente diffuso fra gli abitanti del pianeta e le categorie sociali che lo compongono. L’iperspecializzazione in campo scientifico crea circuiti di sapere-potere che estromettono i cittadini da importanti decisioni riguardanti la qualità della vita quotidiana.
Fra i vari rischi, uno dei più rilevanti è legato al ritenere la conoscenza un capitale sociale e chi ne è in possesso diventa “risorsa umana” impiegabile, sostituibile, che non ha diritti civili, politici, culturali. Le conseguenze sono evidenti: l’umano, passando dalla categoria “persona” a quella di “risorsa”, distanzia dal contesto sociale una parte di umanità e rende l’altra parte distanziabile, eliminabile nel tempo. Nel faccia a faccia con la realtà, a partire dalla disabilità di mia cugina Claudia fino a quella di ogni bambino che conosco fra quelli dell’associazione Paideia, va recuperata una responsabilità piena, guidata da un pensiero capace di collegare ciò che è disgiunto, di considerare la relazione fra una parte e il tutto, di leggere i contesti, di produrre vicinanza, dando spazio alla normalità in ogni situazione, anche a quella che nessuno avrebbe mai creduto potesse essere possibile.


COS’E’ LA DISABILITA’?

La disabilità è la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e una serie di fattori personali e ambientali che rappresentano il contesto di riferimento in cui la persona vive ed esprime le proprie capacità. Secondo la classificazione dell’ICD (International Classification of Disabilities and Handicaps), si prevede la distinzione tra:
● menomazione: qualsiasi perdita o anomalia a carico di strutture o funzioni psicologiche,
fisiologiche o anatomiche. Essa può avere carattere permanente o transitorio. Rappresenta l’esteriorizzazione di uno stato patologico.

● disabilità: è interpretata come riduzione parziale o totale della capacità di svolgere un’attività nei tempi e nei modi considerati come normali. Può essere transitoria o permanente, reversibile o irreversibile, progressiva o regressiva. Inoltre, può essere conseguenza diretta di una menomazione o una reazione psicologica a una menomazione fisica, sensoriale o di altro tipo.

● handicap: è una condizione di svantaggio risultante da un danno o da una disabilità, che limita o impedisce lo svolgimento di un ruolo normale in rapporto all’età, al sesso, ai fattori sociali e culturali. E’ condizione soggetta a cambiamenti, migliorativi o peggiorativi. Esso rappresenta la discrepanza tra l’efficienza o lo stato del soggetto e le aspettative di efficienza e di stato, sia dello stesso soggetto, sia del particolare gruppo cui egli fa riferimento. Dunque, riflette le conseguenze a livello culturale, sociale, economico e ambientale che derivano dalla presenza della menomazione e della disabilità.

Con la Dichiarazione di Madrid, in occasione dell’anno Internazionale della Disabilità (2003), è stato possibile spostare l’interesse da una visione scientifica ad una prettamente sociale. “Le persone disabili devono poter accedere ai comuni servizi sanitari, scolastici, professionali e sociali, così come a tutte le opportunità disponibili per le persone non disabili. Proporre un approccio integrante nei confronti della disabilità e delle persone disabili implica dei cambiamenti radicali nella vita pratica, a vari livelli. Prima di tutto, è necessario assicurare che i servizi disponibili siano coordinati da e tra i vari settori. Le diverse necessità di accesso dei differenti gruppi di persone disabili devono essere tenute in considerazione durante il processo di pianificazione di qualsiasi attività, e non come un adattamento a posteriori ad una pianificazione già prestabilita. I bisogni di una persona disabile e dei suoi familiari sono numerosi, ed è importante sviluppare una risposta comprensiva, che tenga in considerazione sia l'individuo sia i vari aspetti della sua vita”
Tema fortemente discusso è stato quello dell’integrazione scolastica, diritto di tutti i fanciulli. E’ infatti necessario ricordare che un bambino disabile è innanzitutto un bambino.


CONVENZIONE SUI DIRITTI DEL FANCIULLO

Art.2 - Non discriminazione. Gli Stati si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione e a garantirli a ogni bambino che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione. Gli Stati adottano tutti i provvedimenti appropriati affinché il bambino sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione.
Art.23 - Bambini disabili: gli Stati riconoscono che i bambini mentalmente o fisicamente disabili devono condurre una vita piena, in condizioni che garantiscano la loro dignità, favoriscano la loro autonomia e agevolino una loro attiva partecipazione alla via della comunità. Gli Stati riconoscono il diritto dei bambini disabili di beneficiare di cure speciali in maniera atta a concretizzare la più completa integrazione sociale e il loro sviluppo personale.
Tutti i bambini dovrebbero godere degli stessi diritti in tutto il mondo indipendentemente da razza, religione, cultura o disabilità indipendentemente da quali siano le loro condizioni familiari o personali. Nel 1989, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione sui diritti del fanciullo e 191 Paesi (tutti i paesi del mondo ad eccezione degli Stati Uniti e della Somalia) hanno ratificato la Convenzione mostrando volontà di inserire i bambini nella loro agenda politica. Questa Convenzione ha identificato tutti i fanciulli/e, compresi i diversamente abili, come titolari di diritti, ha stabilito un quadro di riferimento internazionalmente accettato per il trattamento di tutti ed ha creato un impiego globale più forte per salvaguardarli.
Non tutti i 191 Governi che hanno ratificato la Convenzione si stanno sforzando di realizzare gli obiettivi. Si può facilmente constatare che i bambini in tutto il mondo continuano a fronteggiare la disuguaglianza nella vita di tutti i giorni, spesso vittime di decisioni politiche, disagi familiari, politiche economiche scarsamente lungimiranti, di guerre e conflitti. Discriminazioni e abusi sono fatti di vita comune per i ragazzi e le ragazze disabili, questi sono spesso esclusi dalla società e raramente viene data loro l'opportunità di partecipare. La loro situazione è spesso dimenticata e ignorata.
La Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo è un documento particolarmente interessante innanzitutto perché è una Convenzione, cioè un documento giuridicamente vincolante, con validità pressoché universale con un valore molto più forte di una semplice
dichiarazione. Inoltre è il primo documento internazionale, sui diritti umani, di stampo generalista a dedicare un articolo al tema della disabilità (art. 23). La presenza di tale articolo non limita in alcun modo l'applicazione di tutta la convenzione alla situazione del bambino con disabilità, che quindi come tutti deve poter godere di diritti collegati ad alcuni principi fondamentali:
- sopravvivenza e sviluppo
- superiore interesse del fanciullo
- non discriminazione
- partecipazione attiva del fanciullo
Tutti i diritti dei bambini rispecchiano i loro bisogni basilari. La differenza chiave tra i bisogni e i diritti è la questione della responsabilità. Un approccio basato sui bisogni non attribuisce a nessuno la responsabilità o il dovere di soddisfare questi bisogni. Un approccio basato sul diritto significa attribuire ai Governi l'obbligo di creare le condizioni perché siano rispettati i diritti del bambino.
Per il bambino disabile, il principio della non discriminazione è cruciale e rinforza il fatto che ogni articolo si riferisce al bambino disabile. Per esempio, tutti i bambini hanno il diritto di non venire separati dai loro genitori contro la loro volontà (Art.9). Questo vale anche per i bambini disabili, perciò quando un bambino disabile alla nascita viene allontanato dalla famiglia, collocato in una istituzione unicamente per motivi legati al suo handicap e viene trattato in modo diverso dagli altri bambini, allora si assiste al fenomeno della discriminazione, oltre al fatto dell’avvenuta violazione dell'articolo 9.


QUINTILIANO

Già Quintiliano, maestro della metodologia della comunicazione formativa, prevedeva nel processo educativo da lui elaborato un’educazione morale e una intellettuale, affidate alle istituzioni tradizionali romane: la famiglia e la scuola.
L’ambiente familiare aveva il compito di impartire una prima formazione basilare ed essenziale allo sviluppo dell’uomo, che presupponeva una buona moralità da parte dei genitori. Invece, la figura del maestro era necessaria come tecnico del sapere e come uomo, capace di instaurare un rapporto educativo, fondato sul reciproco senso di stima e affetto. Il maestro fungeva da “genitore spirituale”, una sorta di modello da imitare da parte degli alunni. Egli doveva conoscere la psicologia dei suoi discepoli, cosicché potesse comprenderli e adeguare l’opera educativa alla personalità e al particolare momento psicologico di ciascuno.
Secondo la teoria di Quintiliano, la scuola, intesa come piccola società, è la vera educazione, dove l’alunno apprende a vivere socialmente, si abitua a trattare con i suoi simili, sviluppa i rapporti con gli altri, a differenza di quanto accade con l’ insegnamento individuale, che è solo istruzione. Queste considerazioni si possono trarre dalla sua opera, “Institutio Oratoria”, la prima di tutta la letteratura greco-romana di carattere pedagogico e anche l’ultima. E’ stato detto che di essa solo nove libri sarebbero stati inclusi in un trattato di retorica, mentre gli altri tre, il I, il II e il XII, sono di natura essenzialmente pedagogica. Per altri, invece, la parte educativa si restringerebbe al primo e secondo volume.



MAGISTER "[...] Sumat igitur ante omnia parentis erga discipulos suos animum, ac succedere se in eorum locum, a quibus sibi liberi tradantur, existimet. Ipse nec habeat vitia nec ferat. Non austeritas eius tristis, non dissoluta sit comitas, ne inde odium hinc contemptus oriatur. Plurimus ei de honesto ac bono sermo sit; nam quo saepius monuerit, hoc rarius castigabit. Minime iracundus, nec tamen eorum, quae emendanda erunt, dissimulator; simplex in docendo; patiens laboris; assiduus potius quam immodicus. Interrogantibus libenter respondeat, non interrogantes percontetur ultro. In laudandis discipulorum dictionibus nec malignus nec effusus, quia res altera taedium laboris, altera securitatem parit. In emendando, quae corrigenda erunt, non acerbus minimeque contumeliosus; nam id quidem multos a proposito studendi fugat, quod quidam sic obiurgant quasi oderint. Ipse aliquid immo multa cotidie dicat, quae secum auditores referant. Licet enim satis exemplorum ad imitandum ex lectione suppedit, tamen viva illa, ut dicitur, vox alit plenius praecipueque eius praeceptoris, quem discipuli, si modo recte sunt instituti, et amant et verentur. Vix autem dici potest, quanto libentius imitemur eos, quibus favemus. [...]".



(Il docente) Prima di tutto assuma dunque verso i propri discepoli l'atteggiamento di un padre, e ritenga di prendere il posto di quelli dai quali gli vengono affidati i figli. Personalmente non abbia vizi né li tolleri. La sua severità non sia arcigna, la sua affabilità non sia eccessiva, affinché non si generi dall'una l'odio, dall'altra disprezzo. I suoi discorsi più frequenti siano sull'onestà e il bene; infatti quanto più spesso ammonirà, tanto più raramente castigherà. Non sia per nulla irascibile, e tuttavia non finga di non vedere i difetti da correggere; semplice nell'insegnare, resistente alla fatica, costante piuttosto che troppo esigente. A quelli che gli pongono domande risponda volentieri, e interroghi di propria iniziativa quelli che non gli chiedono nulla. Nel lodare le esercitazioni dei discepoli non sia né (troppo) severo né (troppo) generoso, perché il primo sentimento suscita avversione per il lavoro, il secondo (eccessiva) sicurezza. Nel correggere quei difetti che dovranno essere corretti non sia aspro né tantomeno offensivo; infatti proprio questo allontana molti dal proposito di studiare, cioè il fatto che alcuni rimproverano come se odiassero. Egli personalmente dica ogni giorno qualcosa, anzi molte cose, che gli scolari possano portare via con sé. Sebbene infatti (il maestro) possa fornire attraverso la lettura sufficienti esempi da imitare, tuttavia la cosiddetta "viva voce" nutre più abbondantemente, e specialmente quella di un insegnante che i discepoli, solo che siano bene istruiti, amano e rispettano. A malapena si può dire, poi, quanto più volentieri imitiamo quelli per cui proviamo simpatia


DISCIPULI "[...] Itaque et virium plus adferunt ad discendum renovati ac recentes et acriorem animum, qui fere necessitatibus repugnat. Nec me offenderit lusus in pueris (est et hoc signum alacritatis), neque illuni tristem semperque demissum sperare possim erectae circa studia mentis fore, cum in hoc quoque maxime naturali aetatibus illis impetu iaceat. Modus tamen sit remissionibus, ne aut odium studiorum faciant negatae aut otii consuetudinem nimiae. Sunt etiam nonnulli acuendis puerorum ingeniis non inutiles lusus, cum positis invicem cuiusque generis quaestiunculis aemulantur. Mores quoque se inter ludendum simplicius detegunt: modo nulla videatur aetas tam infirma quae non protinus quid rectum pravumque sit discat, tum vel maxime formanda cum simulandi nescia est et praecipientibus facillime cedit; frangas enim citius quam corrigas quae in pravum induruerunt[…]”.


Pertanto una volta rigenerati e freschi di energie (i bambini) dedicano all’apprendimento più forze e nello stesso tempo una mente più acuta, mente che recalcitra in certo qual modo alle costrizioni. E non mi troverebbe sfavorevole neanche il gioco nei bambini (anche questo è segno di vitalità) e d’altra parte non potrei sperare che si mostrasse dotato di una mente recettiva riguardo a ciò che studia quel bambino che fosse musone e sempre in disparte, dal momento che resta inerte anche in quello slancio che dovrebbe essere particolarmente naturale a quella età. I momenti di riposo tuttavia debbono avere una certa misura, per evitare che, se negati, suscitino avversione per lo studio oppure, se concessi in modo eccessivo, provochino una abitudine all’ozio. Inoltre vi sono alcuni giochi tutt’altro che inutili ad acuire le menti dei bambini, quando (per esempio) essi impostano gare di emulazione proponendosi reciprocamente piccoli quesiti o problemi di ogni tipo. Nel gioco anche il carattere si scopre con maggior schiettezza, purché non sembri che nessuna età sia tanto debole da non poter direttamente apprendere cosa sia bene e cosa male; e soprattutto allora deve essere formata, quando non è capace di fingere e si lascia con grande facilità plasmare dagli insegnanti: infatti si potrebbero toglier via più velocemente che correggere i lati negativi del carattere che si siano fortemente radicati.



INTEGRAZIONE SCOLASTICA

L’integrazione è un lungo processo che ha subìto profondi cambiamenti a partire dagli anni Settanta. Cinque sono i momenti da evidenziare, contrassegnati da logiche via via diverse:
● logica dell’esclusione (fino agli anni ’50)
● logica della medicalizzazione (anni ’60)
● logica dell’inserimento (prima metà anni ’70)
● logica dell’integrazione (fino agli anni ’90)
● logica del diritto, della personalizzazione, della “Speciale Normalità” (oggi)

Normalità No
Diritto
Integrazione
Inserimento
Medicalizzazione
Esclusione
Speciale Normalità

LOGICA DELL’ ESCLUSIONE
La fantasia dell’umanità è sempre stata colpita dal diverso e ha reagito spesso ostentando paura, sacralità o rifiuto, ma anche pietà e amore e quasi mai indifferenza.
Solo più tardi con lo sviluppo della medicina e della pediatria ci si è accostati scientificamente al problema.
Tra i primi documenti “scientifici” che presentano un trattamento di persone con ritardo mentale ci è pervenuto, nel 1801, quello del Dott. Jean Itard che fece osservazioni riguardo a un bambino abbandonato e recuperato in una foresta, sul quale era stata formulata una diagnosi iniziale di sordomuto e forse di idiozia. Per il tardivo avvio del trattamento educativo riabilitativo, il bambino rimase sempre “sordo” al linguaggio umano. Da ciò Itard intuisce che la mancanza totale di esercizio rende i nostri organi inadatti alle loro funzioni. Questa infatti è la legge dell’atrofia.
Verso la fine dell’800, si aprono le prime scuole rivolte a questi casi “speciali” soprattutto ai sordomuti, oltre ai minorati psichici. Per un certo periodo esse vengono affidate anche a Maria Montessori, importante pedagogista, che riesce a dimostrare come anche bambini con gravi forme di ritardo mentale possano pervenire a risultati significativi nella lettura e nella scrittura.
Nel 1908 vengono istituite le prime classi differenziali, che assorbono quegli alunni che non sono in grado di frequentare classi normali.
In questo momento l’istituzione scolastica non viene investita del problema del disadattamento, cosicché si parla di Logica dell’Esclusione. Essa si esprime attraverso due comportamenti: il rifiuto e la delega. Il primo consiste nel ritenere che la scuola pubblica statale non debba intervenire sul problema del disabile psichico e sulla sua possibile formazione e ne vieta la presenza nelle classi con i decreti Legge del 1923.
Infatti le leggi e le disposizioni ministeriali cercano di isolare il diverso rinchiudendolo in istituti speciali o in classi differenziali. L’origine di ciò è dovuta alle carenze dello Stato e alla sensibilità di piccole comunità locali e grandi personalità di educatori che si impegnano in questo settore dell’educazione.
Non c’è da meravigliarsi di un simile comportamento: l’Italia passando da una società agricola a una urbana industriale, non ha ancora programmato il bisogno di forze lavoro più qualificate, tra gli operai e braccianti. La scuola, infatti, fornisce loro le capacità prime di leggere, scrivere, contare e l’indispensabile “amor di patria”.

LOGICA DELLA MEDICALIZZAZIONE
A partire dagli anni ’60 lo Stato si interessa direttamente dei diversamente abili gravi attraverso un rafforzamento e una diversificazione delle strutture speciali. L’handicap viene considerato come malattia sociale con un approccio di tipo “medico”. L’attenzione viene focalizzata sul deficit e uno specialista ne elabora la diagnosi “descrittiva”: l’alunno viene così classificato, tanto che la relativa etichetta (sordomuto, autistico…) induce l’insegnante a dare rilievo solo ai comportamenti che rientrano nei giudizi già emessi.
Non si modifica l’atteggiamento della società verso “l’altro”, limitandosi a tutelare il normodotato. Infatti si sostiene la necessità di dover dare ai bambini disabili qualcosa di più rispetto agli altri che la famiglia e la scuola non possono dare, ma in realtà lo si emargina.







E. Levinas, autore di “Totalità e infinito”, afferma che “l'etica dell'Altro da sé muove dalla consapevolezza che ogni individualità deve rispettare la differenza dell'altro, differenza che è mistero incommensurabile, in quanto nulla possiamo sapere degli altri. Ciò che crediamo di sapere degli altri è solo una nostra immagine degli altri, in realtà gli altri sono inaccessibili alla nostra vera conoscenza. Nulla può condurre il mio io ad abbracciare veramente l'altro essere, nemmeno l'amore inteso come volontà di fondersi con l'altro. In realtà l'uomo può solo tendere verso l'altro, riconoscendo la differenza infinita che sussiste tra essere ed essere.”
Il boom economico degli anni ‘60-‘70 porta nelle scuole numerosi “alunni diversi” per linguaggio e per cultura, perciò in molte località del “triangolo industriale” le classi differenziali si riempiono di svantaggiati culturali e sociali. In poco più di un decennio, le classi di scuole speciali delle elementari e delle medie lievitano enormemente.
Nel Nord America, dove la ricerca sulle disabilità e delle riabilitazioni inizia già a partire dal dopoguerra, gli studi influenzano il dibattito psicopedagogico italiano contribuendo alla svolta del periodo successivo, con il superamento del concetto di scuole speciali.









Importanti sono gli studi di Goldfarb sulla comparazione tra bambini cresciuti in famiglie adottive e quelli lasciati in istituto, con esiti negativi per questi ultimi.
Si cominciano a nutrire perplessità attorno all’istituzionalizzazione e alle scuole speciali, non solo da parte di ricercatori, ma anche dalle famiglie degli stessi, cercando soluzioni per l’inserimento. Si giunge nel 1971 alla divulgazione della Carta del “Diritto alle pari opportunità educative”, esteso a tutti i disabili. Prendono avvio esperienze di inserimento sostenute dal movimento di “normalizzazione” che promuove la convinzione secondo la quale tutti, disabili e non, debbano poter usufruire dei programmi educativi nel modo meno restrittivo possibile.














LOGICA DELL’ INSERIMENTO
Alla fine degli anni ’60 manca ancora la capacità di affrontare con razionalità la difficile scommessa dell’inserimento e si assiste al formarsi di due schieramenti contrapposti: pro o contro l’inserimento, pro o contro il mantenimento delle scuole speciali. Si delineano due convinzioni: la scuola deve garantire a tutti il tempo e le opportunità di apprendimento per lo sviluppo della persona, deve essere aperta alla partecipazione dell’intera comunità sociale e, per quanto riguarda i problemi dell’handicap, viene sancito il principio secondo il quale l’istruzione dell’obbligo deve avvenire all’interno della scuola.
Si inseriscono nella scuola, soprattutto in quella elementare, i disabili anche molto gravi creando forti reazioni di rifiuto e ghettizzazione interna alle classi.
Occorre per questo formulare considerazioni critiche, tra le quali la concezione ingenua della scuola per cui sembra bastare l’inserimento fisico (ossia passando più tempo a scuola) per procurare vantaggio al disabile, nonostante la mancanza di una riflessione per mettere in atto strategie al fine di attuare una reale integrazione che prenda in esame la complessità delle variabili e le metodologie per conseguirli.
L’apertura della scuola, nonostante le inevitabili resistenze, è stata efficace e ha prodotto e promosso dibattiti intorno alle diverse problematiche, conseguenti all’inserimento.

LOGICA DELL’ INTEGRAZIONE
Con la circolare del 1975 si sostiene che l’inserimento nelle scuole comuni sarebbe stato possibile dalla trasformazione e dal rinnovamento delle scuole stesse.
Le innovazioni introdotte da leggi successive e dai Nuovi Programmi del 1985 per la scuola elementare, nonché per le altre tipologie scolastiche fino agli anni ’90, danno atto che la presenza dell’handicap nella scuola non è più qualche cosa di eccezionale cui far fronte, poiché l’inserimento è una realtà diffusa e quasi scontata.
Il dibattito pedagogico, che ha sollecitato e accompagnato il processo di inserimento degli alunni disabili, presenta un denominatore comune: la convinzione dell’esistenza di uno stretto rapporto fra innovazione della scuola e integrazione.
Non c’è integrazione senza cambiamento.








LOGICA DEL DIRITTO E DELLA PERSONALIZZAZIONE
Con la legge 104/92 il disabile è un “soggetto di diritto” e, di conseguenza, è stata attuata una serie di provvedimenti volti al pieno soddisfacimento di questo diritto.
Oggi gli alunni diversamente abili vivono la loro esperienza formativa con tutti gli altri compagni, sono reciprocamente una risorsa civile ed educativa per la crescita e lo sviluppo dei potenziali cognitivi di tutti.
Occorre considerare che non sempre e non ovunque l’integrazione scolastica è perfettamente riuscita. Infatti essa non è un valore che si acquista una volta per tutte ma si esprime via via con nuove sfide, con contraddizioni tra scuola e scuola, tra scuola e territorio, tra territorio e territorio.
La sfida è quella di migliorare gli apprendimenti con buone didattiche individualizzate e di gruppo per sviluppare tutti i potenziali individuali. Invece la flessibilità data dall’autonomia alle scuole parla di diversità come valore, sia per i soggetti che apprendono, sia per quelli che insegnano. Inoltre l’integrazione tra i diversi servizi è strategica per realizzare pienamente un progetto di vita che dia speranza e futuro a tutte le diverse condizioni personali.
Dall’ 1 settembre 2000 le scuole italiane sono autonome: l’obiettivo è quello di innalzare il livello culturale e il successo formativo.

LOGICA DELLA “SPECIALE NORMALITA’ ”
Il riferimento ad una “disabilità più normale” sembra fare da specchio al concetto di “speciale normalità” per l’integrazione, che permette di valutare insufficiente una normalità improvvisata, senza risorse specifiche, in virtù della quale, stando con gli altri, l’alunno disabile si integri. Il concetto di Speciale Normalità rappresenta una condizione “mista”, complessa, di normalità e di specialità. Esse coesistono, si influenzano reciprocamente e l’una si trasforma nell’altra, arricchendola.
Ianes, fautore di questa teoria, afferma infatti che “la normalità del bisogno di educazione e formazione è uguale a quello di tutti gli altri alunni […] poiché ciascuno ha bisogno di uno sviluppo e di una funzionalità il più possibile normale e il più possibile rispondente alle normali richieste dei normali luoghi di vita. In questa essenziale normalità troviamo però la specialità, la differenza e la peculiarità, anche estrema, di alcune caratteristiche, che riguardano la persona (nelle sue condizioni di salute), la sua partecipazione sociale e i fattori contestuali che la mediano, facilitandola o ostacolandola.”
Nelle situazioni più speciali troviamo dunque molta normalità, o meglio prima di tutto incontriamo la normalità, ed è questo senso di forza che ha fatto cancellare le scuole speciali e tutte le altre situazioni segreganti.
Troviamo anche la Speciale Normalità nella crescente eterogeneità delle classi, crescente sia in termini di reale presenza di alunni con speciali caratteristiche (si pensi soltanto al rapidissimo incremento degli allievi nella scuola superiore) sia in termini di sempre maggiore capacità e volontà da parte dei docenti di comprendere le differenze e le individualità, per tentare di rispondere in modo più individualizzato.
Troviamo la Speciale Normalità in quel crescente numero di alunni “normali” che però presentano bisogni educativi speciali, che vanno affrontati adeguatamente, come disturbi dell’apprendimento, deficit di autostima o di motivazione.
Troviamo anche la Speciale Normalità nella maggior consapevolezza delle normalissime differenze individuali, delle “specialità” e singolarità degli allievi, che chiede differenziazioni nella didattica. Dunque vediamo la normalità sempre più sfaccettata e ricca di elementi e caratteristiche di specialità: anche nell’alunno più apparentemente normale si trovano notevoli differenze, che vanno conosciute e alla quale va data la possibilità di espressione e valorizzazione.


PEDAGOGIA SPECIALE

Questo tipo di pedagogia è in grado di cogliere la multidimensionalità, di pensare considerando la singolarità, la località, la temporalità e di non dimenticare mai le totalità integratrici.
La pedagogia speciale, come pedagogia della complessità e della diversità finalizzata alla “riduzione dell’handicap”, richiede conoscenze in molteplici settori del sapere, non escluse le pratiche legate alla quotidianità. Si tratta di una scienza i cui contorni non sono definiti una volta per tutte, in quanto vengono rielaborati nell’incessante ricerca di possibili soluzioni, dove la potenziata capacità di interpretare le situazioni di deficit e di handicap rappresenta il principio basilare della prospettiva dell’integrazione. Saper leggere le diversità significa, infatti, individuare le possibilità e le risorse per ricondurle a comuni territori di appartenenza.
Il raccontarsi, come capacità di accettare la propria identità nel confronto necessario con gli altri, presuppone sempre comunque un riconoscimento, una narrazione elaborata in funzione di un destinatario, frutto di relazioni educative basate sulla reciprocità, che aiutano il soggetto “diverso” a cogliere il valore del suo “esserci” nel mondo (per dirla con Heidegger).
Questo tipo di pedagogia è la capacità di far dialogare memoria e futuro del soggetto diverso, al fine di riconoscerne autentico protagonista del suo percorso di umana autorealizzazione. Si tratta di adottare una pedagogia della diversità promozionale di ricerca e di scoperta, rispettosa della complessità dei problemi esistenti, in grado di attivare strategie di intervento educativo-didattico, capace di bandire ogni stagnante paideia educativa, mediante l’utilizzazione di modelli di intervento che esaltano il valore dell’autonomia personale. La diversità va dunque interpretata come categoria storico-esistenziale valorizzante la vita di tutti gli esseri umani.
La principale finalità consiste nella “riduzione dell’handicap”, ovvero nell’adeguata valorizzazione del potenziale di ciascun soggetto: migliorare la qualità della vita del disabile.
Le diversità del deficit e dell’handicap rappresentano lo specifico oggetto di indagine della pedagogia speciale. La cura educativa non è sanitaria, ma si risolve in un sistema in fieri di regole comunicative, sociali, relazionali in grado di permettere a ciascuno di divenire ciò che può, di formarsi.
È una pedagogia del “prendersi cura” per riprendere ancora l’insegnamento di Heidegger che distingue l’ ”aver cura” dal “prendersi cura”: si fonda sulla capacità di collegare, nell’incontro educativo, individui diversi, con la loro particolare storia, generando nuove trame di significato esistenziale, in modo intenzionale e soprattutto mantenendo viva la consapevolezza della contestualità della richiesta d’aiuto o di cura.
Bisogna innanzitutto stabilire che l’essere umano è sostanzialmente soggetto e sede vivente di valori, i quali non possono essere considerati strumentali neppure per un altro essere umano. L’uomo è persona, vale a dire valore in sé e per sé, portatore di valori in qualsiasi età e in qualsiasi stato psicofisico.
Il concetto di “persona” fa riferimento ad una realtà senza connotare tratti fisici o corporei, mentre il termine “individuo” fa riferimento a specifiche caratteristiche fisiche. Si può perciò dire che il concetto di persona sia comprensivo del concetto di individuo. Jacques Maritain (autore di “Umanesimo Integrale”) scrive a tal proposito: “l’uomo è sì un animale ed un individuo, ma non come gli altri. L’uomo è un individuo che si guida da sé mediante l’intelligenza e la volontà; esiste non soltanto fisicamente, c’è in lui un esistere più ricco ed elevato; una sopraesistenza individuale nella conoscenza e nell’amore. E così, in qualche modo, un tutto e non soltanto una parte, un universo a sé, un microcosmo in cui il grande universo può, tutt’intero, essere contenuto per mezzo della conoscenza; mediante l’amore può darsi liberamente ad altri esseri che sono per lui come altri se stesso, relazione questa di cui non è possibile trovare l’equivalente in tutto l’universo fisico”.
Etimologicamente “differenza” deriva da disferre, che significa “portare da una parte all’altra”, “portare oltre”. Proprio per la sua differenza, ogni persona deve poter realizzarsi ed espandersi in tutta la sua originale pienezza, affermandosi come “differente” non solo dagli altri ma anche da se stessa, dei propri limiti, dal proprio vissuto, dal proprio ambiente. Al fine di non deteriorarsi nel conformismo e nella ripetizione, deve coltivare le proprie doti, fare tesoro delle proprie esperienze, costruire rapporti interpersonali arricchenti.
Il concetto di “diversità” da disvertere, cioè “volgere in opposta direzione”, accentua quello di differenza. Esso richiama l’idea di dissomiglianza, di discostamento da una norma, da ciò che è più comune. La diversità pertanto richiede riconoscimento e rispetto, piuttosto che ambigue forme di aiuto e di sostegno, che più o meno consapevolmente tendono all’assimilazione.
Definire “diverso” lo straniero, l’anormale, è ricorrere ad una categorizzazione generica per indicare una particolare diversità etnica, culturale, fisica, facendo così torto alla sua natura unica ed irripetibile. Non possiamo quindi far altro che esaltare la magnifica diversità dei simili.
E’ importante non porre l’accento su ciò che risulta impossibile, ma accogliere il soggetto così com’è; perché questo avvenga appare indispensabile che ognuno, venendo al mondo, abbia qualcuno che si prenda cura di lui, con cui costruire relazioni privilegiate e che lo aiuti nella scoperta dell’identità individuale. L’intelligenza rende possibile la costruzione di categorie e classificazioni, ma anche il loro superamento. Accoglienza significa considerare l’individuo come persona che deve essere salvaguardata nella dignità, che ha bisogni propri, primari e secondari, derivanti dalla storia soggettiva.
I limiti creano rifiuto, dolore, enorme frustrazione, grande fatica da parte dei genitori di un figlio disabile. Ciò vale, anche se in maniera diversa, se un figlio sano diventa disabile, poiché ha nuovi limiti. E’ più facile aiutare il disabile, sia da parte dei genitori sia degli operatori, se c’è una corretta conoscenza dei suoi limiti e delle sue potenzialità.
Ci sono aspetti della persona che è essenziale considerare: i sentimenti, gli stati d’animo, i valori e le regole individuali. Chi è diversamente abile e ha bisogno d’aiuto e di cura, deve essere rispettato anche nel proprio mondo interiore, nell’universo di riferimento che gli appartiene.
Il lavoro con i disabili porta a contatto con il dolore e il limite, è naturale averne paura, ma è necessario avere consapevolezza di sé e conoscere con precisione e profondità la situazione dell’altro per impostare un’adeguata relazione di aiuto. Offrire un aiuto può essere anche un’integrazione: aggiunge ciò che manca, armonizza, completa, trova le modalità attraverso le quali ognuno possa avere un ruolo, sia pur piccolo, possa interagire e riesca a sentirsi utile a far qualcosa. Il presupposto di tutto ciò è il riconoscimento dell’essere.
E’ attraverso l’espressione e il confronto che ogni singolo individuo costruisce la personalità, ma se la comunicazione viene negata, se non c’è la possibilità di conoscere il diverso, com’è possibile crescere? Bisogna guardarsi allo specchio per sapere come siamo e gli occhi di chi ci sta di fronte sono davvero i migliori specchi. Attraverso il dialogo e il confronto è possibile che ognuno scopra le proprie capacità e questo vale per la persona diversamente abile come per chi l’aiuta; se un rapporto è autentico nel suo giocarsi, ognuna delle parti potrà anche individuare ciò che deve superare dentro di sé.
Uno dei diritti e dei bisogni che vanno riconosciuti al disabile è quello di poter conoscere sempre più il mondo che lo circonda, di potersi sperimentare, per quanto più possibile, in nuove realtà. Occorre riconoscere alle persone disabili il diritto all’esperienza, a occasioni che possono anche farle soffrire o renderle più consapevoli delle difficoltà. Così imparerà ad affrontare gli ostacoli, a sopportare le frustrazioni, a sentirsi a volte rifiutato. E’ importante che il diversamente abile possa immaginarsi in una storia, in un tempo, possa cercare il proprio ruolo; questo è l’unico modo corretto per farlo crescere, ma deve essere l’altro a cominciare a sognare e progettare “su di lui”.
Un’altra necessità che la nostra cultura riconosce poco alle persone diversamente abili è quella di rivestire un ruolo attivo. Proprio perché sono messe al primo posto le difficoltà e non le capacità, le azioni lavorative che il disabile deve svolgere risultano sterili e ripetitive, non hanno un valore in sé, né uno sbocco produttivo. Bisognerebbe garantire loro alcune soluzioni perché i timori del futuro, della solitudine, della necessità di aiuto, possano essere neutralizzati; così sarebbe più facile immaginare costruire un avvenire. Anche il diversamente abile ha il diritto di diventare adulto e di costruire la propria storia.








BIBLIOGRAFIA

Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, 2000, Oscar Mondadori
Quintiliano: http//www.dubladidattica.it/quintiliano.html (10/4/ 2009)
Convenzione sui diritti del fanciullo: http//www.informahandicap.it (10/4/2009)
Disabilità: da Wikipedia, l’Enciclopedia libera
Integrazione e Pedagogia speciale: http//www.bussolascuola.it (10/4/2009)
(a cura di D.Antonello e F. Tessaro)
http//www.laboratorioculturale.blogspot.com (10/4/2009)