SALA ROSA ANTICO
pubblicazioni di DOCUMENTI/ RACCOLTE/ APPROFONDIMENTI/ TESTIMONIANZE
dell'Associazione Culturale Quintiliano

domenica 16 gennaio 2011

Le Tesine: PERCORSI DELLA COSCIENZA (2009)

Davide Biagioni (Maturità 2009, Liceo classico Alfieri, Torino)

Il termine coscienza deriva dal latino cum + scire (sapere insieme) e indica il sapere consapevole condivisibile.

Indicava, almeno originariamente, l’equilibrio fra le tre dimensioni che gli antichi pensavano dominassero l’uomo: quella della mente, situata in una particolare regione dell’encefalo, quella istintivo-motoria, situata alla base della colonna vertebrale, e quella emotiva situata nel plesso solare. Si pensava che questo equilibrio consentisse all’uomo di elevarsi rispetto a tutti gli altri esseri poggiando su una forte ragione, e che uno squilibrio di queste dimensioni portasse alla pazzia.
Con lo stesso termine oggi si identificano diversi significati che mutano rispetto alla disciplina per la quale sono usati. Nel linguaggio comune, infatti, la coscienza è una facoltà immediata che consente di avvertire, comprendere, valutare i fatti che si verificano nella sfera dell’esperienza individuale o si prospettano in un futuro più o meno vicino; per la filosofia, invece, la coscienza diventa una discussione sulla morale; per la letteratura, inoltre, è una questione etica; e per la scienza, infine, un insieme di neurotrasmettitori.

Come si origina la coscienza?
Le teorie più accreditate sono due e, rispettivamente, sono il risultato degli studi della professoressa di farmacologia all’università di Oxford Susan Greenfield e del professore di biologia cognitiva Christof Koch.
Entrambi gli scenziati concordano sul fatto che la coscienza si generi grazie ai neuroni situati nel cervello e che gli elementi che la influenzano non sono univoci, ma poliedrici. Il problema di fondo, però, consiste nel fatto che si sa ancora troppo poco su come avvengono le reazioni chimico-elettriche all’interno del cervello ed è quindi possibile formulare varie ipotesi basandosi sulle neuroscienze, sui fenomeni patologici e sulla psicologia. Quello che, tuttavia, si può tentare di individuare sono i correlati neuronali della coscienza, detti NCC, vale a dire i recettori che intervengono, ad esempio, quando ci rendiamo conto di vedere un cane o ascoltare un suono.





I due modelli
Fin dal 1988 Koch ha affrontato degli studi con Francis Crick arrivando a capire che per ogni precetto che il nostro cervello percepisce si forma un NCC. Ogni NCC è differente e se ne forma uno specifico per ogni differente immagine, suono, gusto o sensazione. Se un NCC è interrotto o perturbato esso scompare.
Parlando con termini fisiologici nel momento in cui si vede entrare una persona in una stanza un gruppo di neuroni piramidali (si pensa ne bastino un milione), che sono i neuroni in grado di comunicare a grande distanza, inizia una fitta rete di conversazioni che passano dalla corteccia posteriore, dove sono elaborati gli stimoli visivi, a quella frontale dove vengono pianificati e dove prendiamo coscienza di ciò che vediamo.
Alcuni NCC predominano sugli altri. Se, ad esempio, si sta osservando la persona entrare nella stanza ma si sente anche una melodia, la melodia ha superiorità sull’oggetto visivo, questo perché le congregazioni di neuroni formate da un suono sono più forti di quelle formate dalla vista. Questo non vuol dire che noi smettiamo di osservare quella persona ma che siamo coscientemente più portati ad ascoltare la melodia.
La coalizione si alimenta se non riceve la perturbazione di altre coalizioni.
La differenza dei due modelli sta nel modo di comunicare tra i neuroni. Secondo Koch gruppi di neuroni collegano la corteccia posteriore a quella inferiore passando da un livello più interno del cervello ad uno più esterno, secondo Greenfield, invece, la comunicazione avviene attraverso una comunicazione separata dei neuroni che comunicano grazie alla secrezione di sostanze chimiche.
Se, fisicamente, può sembrare un dettaglio sorvolabile, nella praticità della vita morale, il fatto che la coscienza sia creata nello strato più esterno esattamente come vista, olfatto e ogni altro senso, ha portato a sminuirla e ad accomunarci molto più di quanto pensassimo agli animali. Se la coscienza fosse, invece, frutto della parte ancora inesplorata del cervello sarebbe nobilitata, ma una persona in coma ad esempio, con tutte le facoltà intatte, non potrebbe essere considerata cosciente, giustificando così l’eutanasia.



Accezioni del termine coscienza
Il termine, nella storia della filosofia, ha mutato le sue accezioni e, a partire dallo stoicismo (dal III sec. a.C. l’antico stoicismo, dal II al I sec. a. C. il medio, dal I al III sec. d.C. la nuova Stoà) fino al neoplatonismo (dal III al VI sec. d.C.), ha indicato l’interiorità dell’anima nel continuo dialogo con se stessa.



Nel De ira di Seneca (4 a. C. - 65 d.C.), trattato diviso in tre libri nei quali l’autore analizza la genesi, la natura e gli effetti funesti di tale vizio (primo libro), i vari modi di curarlo (II libro), i mezzi per evitarlo, frenarlo e placarlo (terzo libro), vengono suggeriti degli utili antidoti e uno tra questi, la ragione, secondo Seneca è un elemento fondamentale che può portare all’esame di coscienza da compiersi nell’intimità e nell’oscurità, alla fine della giornata: ciò permette di equilibrare l’agire dell’uomo, un consiglio certamente ripreso dalla filosofia religioso-magica di Pitagora, il quale era stato trapiantato a Roma dalla setta dei Sesti.
Dice Seneca : “Faciebat hoc Sextius, ut consummato die, cum se ad nocturnam quietem recepisset, interrogaret animum suum: -Quod hodie malum tuum sanasti? Cui vitio obstitisti? Qua parte melior es? -Desinet ira et moderatior erit, que sciet sibi cotidie ad iudicem esse veniendum

(De ira, III, 36, 1-4).









Nel corso della storia del pensiero il filosofo cristiano Agostino (354-430) ha utilizzato spesso il termine coscienza soprattutto nelle Confessiones (397-401): per arrivare all’alétheia l’ anima deve iniziare il dialogo interiore con se medesima e giungere così alla luce della meditazione; questa esperienza ha un risvolto morale ed è proprio la coscienza il luogo nel quale Agostino ubica questo colloquio interiore: egli infatti parla di “voce della coscienza”.
La filosofia agostiniana prende spunto dalla teologia paolina che parla della coscienza definendola una sicura conoscenza (termine che invece deriva da cum + gnoscere) dei fondamenti della retta volontà, in modo che interrogando la coscienza si può conoscere con certezza il modo esemplare del proprio comportamento, l’ideale etico, la retta via che viene continuamente abbandonata a causa della fragilità umana che consegue dal peccato originale.





Il filosofo Montaigne (1533-1592), che fu maestro sia di Cartesio (1596-1650) sia di Pascal (1623-1662), nei suoi Saggi (1580) parla di voce della coscienza e la definisce una serie di convinzioni, derivate dalla società, che entrano a far parte della conoscenza già dall’età infantile fino ad assurgere al ruolo di legge normativa nell’ambito etico; perciò queste norme non hanno affatto una natura interiore ma esterna pur albergando nell’intimo di quella che viene comunemente definita coscienza.










Cartesio inaugura il nuovo significato di coscienza intesa come consapevolezza del soggetto riguardante il proprio pensiero. Nel suo cogito ergo sum res cogitans, e proprio nell’ ergo sum res cogitans, si definisce cosa sia la coscienza: poiché penso sono e sono una sostanza che pensa, dunque cosciente di essere: è l’unica vera coscienza. Nelle prime due Meditazioni metafisiche Cartesio parla di coscienza dicendo che il soggetto ha una certezza indubitabile e diretta proprio attraverso il cogito.









Locke (1632-1704), da buon empirista, si scaglia contro la scuola platonica la quale invece sosteneva tenacemente l’innatismo (come anche Cartesio, in parte) e sviluppa l’insegnamento di Montaigne parlando di conoscenza e coscienza come derivanti dalla sola e mera esperienza.











Hume (1711-1776), il filosofo di Edimburgo, prosegue sul filone di pensiero già delineato da Locke e sostiene che anche se il soggetto pensante può giungere col solo pensiero ai confini dell’universo non per questo motivo potrà mai uscire dalla propria coscienza perché non potrà fare mai i conti con ciò che sta al di fuori delle proprie impressioni sensibili o delle idee della ragione.



Kant (1724-1804), nella Critica della ragion pura critica l’impostazione degli empiristi e anche se sostiene che Hume lo abbia svegliato dal sonno dogmatico confuta le teorie dell’idealismo e dice che nella coscienza empirica che è diversa tra i soggetti , è presente anche una forma pura di coscienza, l’appercezione pura (Io penso) che ha una funzione di conoscenza uguale per tutti gli uomini. Le forme sintetiche a priori, e quindi pure, dell’intelletto sono articolate secondo le dodici categorie delle quali l’Io penso è proprio l’elemento unificante. Perciò questa funzione di conoscenza pura e universale è uguale per tutti i soggetti trascendentali (Kant parla di questo nella ”deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto” contenuta nella prima Critica).
Nella seconda Critica, ovvero la Critica della ragion pratica, egli mette al centro della sua visione morale autonoma (contro ogni concezione eteronoma della morale stessa) la coscienza, descrivendola come una voce interiore che si oppone ai sensi. Nell’interiorità del soggetto sta dunque un valore assoluto universale della legge morale la quale emerge dalla libertà e vi giunge alla fine del suo percorso, ossia la legge morale è un mezzo e la libertà è un fine.
la libertà e la legge pratica incondizionata risultano dunque reciprocamente connesse. Qui io non domando se esse siano anche diverse di fatto o se una legge incondizionata non sia piuttosto la semplice coscienza di sé di una ragion pura-pratica e se questa sia identica al concetto positivo della libertà; ma domando dove ha inizio la nostra conoscenza dell’incondizionato pratico, se dalla libertà o dalla legge pratica. Non è possibile che prenda inizio dalla libertà, di cui non possiamo né aver coscienza immediata, perché il primo concetto di essa è negativo, né conoscenza mediata dall’esperienza, perché l’esperienza non ci dà che la legge dei fenomeni, e con ciò il meccanismo della natura, che è l’opposto puro e semplice della libertà. E’ quindi la legge morale della quale diventiamo consci (appena formuliamo le massime della volontà), ciò che ci si offre per il primo e che ci conduce direttamente al concetto della libertà[…] ” .
(dalla Critica della ragion pratica)

Nel 1793 Kant scrive, successivamente alla terza Critica, un’opera, considerata la quarta Critica, intitolata La religione nei confini della pura ragione , che introduce con una lettera nella quale il filosofo di Koenigsberg ne descrive il contenuto sinteticamente, dicendo che se la prima Critica era la risposta alla domanda della metafisica (che cosa posso conoscere?), la seconda Critica era la risposta alla domanda dell’etica (come devo agire?), questa opera è la risposta alla domanda della religione (cosa posso sperare?). Proprio qui viene ripreso il concetto di religione naturale (deismo) contrapposto al concetto di religione rivelata (teismo) e, per Kant, la religione non è il fondamento della morale ma è il contrario, la morale può condurre alla religione; Kant si pone al confine della religione naturale guardando all’orizzonte della religione rivelata elaborando la famosa teoria dei cerchi concentrici.
La morale, essendo fondata sul concetto dell’uomo come essere libero, il quale, appunto perché tale, sottopone se stesso, mediante la propria ragione, a leggi incondizionate, non ha bisogno né dell’idea di un altro essere superiore all’uomo per conoscere il proprio dovere, né di un altro movente oltre la legge stessa per adempierlo. Tuttavia è colpa dell’uomo se si trova in lui questo bisogno, al quale, quindi, nessun altro può porre rimedio;Infatti ciò che non scaturisce da lui stesso e dalla sua libertà non può valere come surrogato per ciò che manca alla sua moralità. Questa non ha quindi bisogno del sostegno della religione, ma è autosufficiente grazia alla ragion pratica-pura[…] ”.
(da La religione nei confini della ragion pura pratica)

Perciò Kant invita il soggetto ad agire secondo la propria coscienza spinto dall’imperativo categorico.

Proprio dal pensiero kantiano si sviluppa l’idealismo tedesco che parla della coscienza evidenziando nel soggetto l’Io assoluto, così definito da Fichte (1762-1814) e anche dal primo Schelling (1775-1854). La coscienza coincide con l’Io il quale deriva dall’esperienza sensibile e perciò è un Io empirico. Esso viene in un secondo momento limitato da ciò che l’Io originario oppone a se stesso ossia il non-Io: ciò significa che la riflessione filosofica è l’unico campo in cui può essere attinto il sapere e il conoscere e, perciò, è l’unico luogo della coscienza.






Hegel (1770-1831), maggior esponente dell’idealismo tedesco, rifiuta radicalmente la concezione di Fichte e Schelling e parla della coscienza lungo i capitoli della sua prima opera, la Fenomenologia dello Spirito. Essa è proprio, in qualche modo, la sintesi della storia del pensiero inteso proprio come coscienza, è il “romanzo” che ha per protagonista la coscienza, è il palcoscenico sul quale lo Spirito, che nel corso del tempo e nello spazio ha assunto diverse figure e sembianze, parla come attore protagonista e unico con se stesso e di se stesso. E lo Spirito è proprio la coscienza, finché non si realizza come sapere assoluto, ossia fino a quando si comporta come soggetto che lotta dialetticamente con l’oggetto.
Hegel inizia definendo la coscienza un “atteggiamento” dello Spirito verso ciò che è fisicamente e naturalmente esterno a essa, per poter conoscere la realtà sensibile; e la ragione, che in questa prima fase è ancora soltanto coscienza, ha questo scopo rispetto alla natura (Cartesio avrebbe detto che così la res cogitans conosce la res extensa, ossia il pensiero conosce l’estensione fisica). Questa prima operazione nella Fenomenologia dello spirito viene svolta nella e dalla coscienza naturale, la quale deve prima fare esperienza della inadeguatezza delle figure dei fenomeni del sapere apparente.
Successivamente la coscienza naturale diventa auto-coscienza nell’esperienza dello Spirito cioè coscienza di sé: si tratta della consapevolezza della propria superiorità da parte del soggetto (che è lo strumento dello Spirito); perciò la natura, i sensi, e ogni materia sono subordinati all’azione dello Spirito. Per operare questo è necessario tuttavia giungere alla consapevolezza realizzata storicamente, ovvero nella libertà, che è l’espressione dello Spirito. Tale processo dialettico è la risultante della guerra fra le autocoscienze che non ammettono l’una all’altra di essere tali: infatti le autocoscienze vivono una contraddizione poiché sono dipendenti e, al tempo stesso, indipendenti reciprocamente; questa lotta porta alla formazione, nel tempo e nello spazio, della storia stessa. L’autocoscienza, che è identità fra gli opposti ossia il soggetto e l’oggetto che costituiscono l’Io che si sdoppia , si esprime in una figura che è quella della lotta, fino alla morte, fra due diverse autocoscienze che non vogliono riconoscere reciprocamente la superiorità l’una all’altra e che quindi la attribuiscono ognuna a sé. Questa pretesa fallisce e subentra la morte come negazione, come antitesi: questa figura prende il nome di relazione fra signoria e servitù (Marx svilupperà questo tema che confluirà nella lotta di classe, e che deriva a sua volta proprio dalla lezione hegeliana dalla quale egli aveva ricavato il concetto di coscienza di classe, come concretizzazione del troppo astratto concetto di coscienza). Una delle autocoscienze che ha rinunciato a lottare per sopravvivere è dunque sottomessa all’altra la quale, invece, trae vantaggio da questa sottomissione e fruisce dei prodotti della prima autocoscienza. Perciò, se la figura del servo era prima in svantaggio, ora producendo forme di vita per la figura del padrone ha in pugno proprio chi pensava di sottometterla: così avviene una crescita spirituale che forma ciò che la natura presenta in modo caotico e ordina, reprimendo, le tendenze primordiali della coscienza. Così si origina la figura della coscienza infelice, ben rappresentata dalla religione ebraica, inizialmente, e, successivamente, dal teocentrismo cristiano d’epoca medioevale: c’è una bipartizione della coscienza che, da un lato, è coincidente col Dio trascendente e, dall’altro, secondo il soggetto umano dotato di fede, è la negazione dell’Io; il soggetto vorrebbe annullarsi nella trascendenza stessa di Dio ma questa operazione non gli riesce e così subentra l’infelicità della coscienza che si percepisce inutile di fronte all’assoluto. Hegel elenca ogni tentativo della coscienza infelice di negarsi nel trascendente: l’ascesi, la mistica, i sentimenti devoti, la missione etica e religiosa mossa dall’amore per Dio, e la mortificazione dell’Io. L’infelicità sarà superata quando la coscienza riuscirà a rinvenire Dio non più in se stessa ma fuori di sé, ossia nel mondo esterno; quindi la coscienza coinciderà con la ragione dopo che ha abbandonato la fede che la rendeva infelice. Infatti la fede nel Dio personale e trascendente al tempo stesso non era che un’alienazione, cioè un’antitesi da superare. Questa idea sarà ripresa dalla sinistra hegeliana che parlerà della coscienza infelice come esperienza religiosa primitiva che non poteva che fallire storicamente (si pensi alle crociate). Dall’autocoscienza, che culmina nella coscienza infelice, si passa allo stadio della ragione e dunque la coscienza si rivolge sia alla natura sia alla società, cercando d’ora in poi il concetto.






Freud (1856-1939) apre il Novecento con l’opera Interpretazione dei sogni e inaugurando il metodo della psicoanalisi che si basa su una opposizione fra mondo conscio e mondo inconscio mediato dal mondo preconscio; Freud distingue la prima topica (conscio/preconscio/inconscio) dalla seconda (Es/Io/Super-Io); L’Es, in tedesco, è un pronome neutro della terza persona singolare, perciò ha un carattere impersonale che indica la materia informe e originaria della psiche che ancora deve distinguere il bene e il male, ma che risponde al principio del piacere. Perciò nel processo della coscientizzazione il Super-Io è proprio la coscienza etica in cui sono chiari i confini tra ciò che si ritiene giusto o sbagliato e che deve guidare le azioni del soggetto; L’Io è l’organizzazione della personalità del soggetto che risponde a queste divisioni interne e che giunge a costruirsi come tale.
Freud parla del sogno come momento nel quale l’esperienza della coscienza diurna viene introiettata e alterata; la coscienza onirica è tuttavia slegata dall’adattamento all’ambiente reale ed è dominata dalle leggi che regolano l’affettività e che si discostano dalle leggi della ragione e da quelle sociali. Il soggetto nel sogno non vive più nello spazio e nel tempo e può essere al tempo stesso protagonista passivo e attivo della scena; il principio d’identità, cardine della logica, salta per il sognatore così come il principio di contraddizione. La coscienza onirica si esprime però nei simboli e Freud elabora una simbolizzazione onirica; persino nella vita diurna, che apparentemente è aliena dal sogno, Freud nota i cosiddetti residui di natura onirica: si continua a sognare sempre, anche se la vita cosciente nella quotidianità non illumina sufficientemente il continuo e ininterrotto atto onirico (riconoscibile in varie forme, dai lapsus agli atti mancati). Nell’opera Al di là del principio di piacere, Freud analizza le nevrosi causate dai traumi e definisce la coazione-a-ripetere. Essa non può essere determinata solo dal principio di piacere ma anche dalla pulsione di morte. Si tratta di una lotta della psiche, un conflitto che Freud riconduce alla guerra originaria tra due forze: Eros e Thanatos. Le due forze, una dinamica e vitale e l’altra statica e mortale, sono in combutta tra loro e attraverso la coazione a ripetere, e si esprimono nel comportamento del soggetto il quale si inserisce nel sistema del rapporto fra percezione e coscienza fino a mettere in relazione una nevrosi con il tempo in una continua ripetizione.





Nella letteratura italiana del Novecento, Italo Svevo (Ettore Schmitz, 1861-1924), parla come pochi hanno potuto fare prima della nascita della psicoanalisi, della coscienza nel suo terzo romanzo La coscienza di Zeno. Zeno Cosini è curato da metodi psicoanalitici e viene consigliato dal suo medico curante di scrivere un diario riassuntivo della propria esistenza. In questa analisi amara e ironica vengono appuntate le circostanze e i momenti dei suoi propositi vani ma precisi nei quali egli tenta di liberarsi dal vizio del fumo. Il caso porta Zeno a sposarsi e anche ad intraprendere una relazione adulterina; si leggono in rassegna , annotate nel diario, le circostanze attraverso le quali e per le quali il protagonista si lega anche a Guido, l’odiato e amato cognato, il quale sarà per errore portato dagli eventi al suicidio. Domina tuttavia la trama la malattia di Zeno che, quando sembra sopirsi, è pronta a rispuntare come in un agguato, secondo forme diverse quali l’ ipocondria, la malattia immaginaria, la malattia di comodo e vari condizionamenti esistenziali. Il male di Zeno Cosini è, in realtà, il male della sua coscienza: egli in questa analisi si autocompiace eccessivamente e inizia un percorso introspettivo che diventa un alibi per portarlo a tergiversare e a far passare il tempo. L’opera, che ha la struttura stilistica di un diario, si conclude dunque con la descrizione della Grande Guerra, la quale contrasta volutamente con il mondo interiore dell’Io finora scandagliato. Il vizio del fumo è un simbolo, una metafora che serve a Svevo soltanto per descrivere il comportamento di Zeno e la malattia della sua volontà. Mettendo in luce l’inettitudine del protagonista attraverso l’umorismo, si può penetrare meglio nei meccanismi della coscienza e analizzare ogni autogiustificazione del soggetto; inoltre Svevo riesce così a distaccarsi e arrivare a una accettazione del gioco casuale dell’esistenza che fa seguire imprevedibili realtà alle intenzioni del protagonista: nell’ironia e nella coscienza vanno, per lui, ricercati i soli e possibili metodi di difesa contro la società e le sue certezze che sono soltanto apparenze.






BIBLIOGRAFIA

- Georg Wilhelm Friedrich Hegel, “Fenomenologia dello Spirito”, La Nuova Italia
- Italo Svevo, “La Coscienza di Zeno”, Bur
- Luciano Nanni, “Leggere Svevo” , Zanichelli
- Adriano Bon , “Come leggere La Coscienza di Zeno, di Italo Svevo” , Mursia
- Sigmund Freud , “L’Interpretazione dei Sogni” , Bollati Boringhieri
- Aldo Manetti , “Storia della letteratura latina” , Juvenilia
- Dario Coppola , “Per una nuova scelta” , Firenze Atheneum
- Enciclopedia Garzanti di filosofia
- Giovanni Treccani , “Enciclopedia italiana di scienze , lettere e arti”

Davide Biagioni

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