O misere menti degli uomini, o animi ciechi!
In quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi pericoli
si trascorre questa breve vita!
( De rerum natura, II, vv. 14-16 )
Lucrezio pone in grande rilievo l'importanza di Epicuro, riservandogli vari elogi nel corso del poema e decantandolo come scopritore del vero e benefattore dell'umanità: Lucrezio stesso riconosce infatti al filosofo greco la paternità delle dottrine esposte nel poema.
Quando la vita umana giaceva turpemente davanti agli occhi
sulla terra schiacciata sotto la pesante religione
che protendeva il capo dalle regioni del cielo
incombendo sui mortali con aspetto orribile,
per primo un uomo greco osò alzare contro
gli occhi mortali e per primo opporsi contro,
e non lo frenò la fama degli dei nè i fulmini
nè il cielo con il mormorio minacciante, ma questo
stimolò di più l'ardente virtù dello spirito, desiderando per primo
di infrangere gli stretti serrami delle porte della natura.
Quindi prevalse la vivace forza dell'animo, e avanzò a lungo
oltre le mura infiammate dell'universo
e percorse con la ragione e l'animo l'immenso universo,
da cui, vittorioso, riporta a noi cosa possa nascere,
cosa non possa, infine per quale ragione ogni cosa abbia
una legge definita e un limite profondamente fisso.
Perciò la religione messa sotto i piedi a sua volta
viene calpestata, la vittoria ci uguaglia al cielo.
( De rerum natura, I, vv. 62-79 )
Ora la realtà è finalmente svelata agli occhi dell'uomo e la religione-superstizione ha smesso di ingannarlo. Purtroppo però, la scoperta della vera natura delle cose porta con sé grande amarezza: si giunge alla triste quanto veritiera e tangibile conclusione che il mondo non sia stato creato per l'uomo, il quale per vivere all'interno di esso deve adattarsi usando la ragione, mentre altre creature più selvagge sono a loro agio per costituzione naturale.
E quand'anche ignorassi quali siano i primi elementi delle cose,
questo tuttavia oserei affermare in base agli stessi fenomeni
del cielo e comprovare in forza di molte altre cose:
che la natura del mondo non è stata per nulla disposta
dal volere divino per noi: di così grande difetto essa è dotata.
In primo luogo, di quanto copre l'ampia distesa del cielo,
una grande parte è occupata da monti e selve
dominio di belve, la posseggono rupi e deserte paludi
e il mare che vastamente disgiunge le rive delle terre.
Inoltre, quasi due terzi il bruciante calore
e l'assiduo cadere del gelo li tolgono ai mortali.
Ciò che resta di terra coltivabile, la natura con la propria forza
lo coprirebbe tuttavia di rovi, se non le resistesse la forza dell'uomo,
per i bisogni della vita avvezzo a gemere sul robusto
bidente e a solcare la terra cacciandovi a fondo l'aratro.
Se, rivoltando col vomere le glebe feconde e domando
il suolo della terra, non le stimolassimo al nascere,
spontaneamente le piante non potrebbero sorgere nell'aria pura;
e nondimeno, talora, procurate con grande fatica,
quando già per i campi frondeggiano e tutte fioriscono,
o le brucia con eccessivi calori l'etereo sole
o le distruggono improvvise piogge e gelide brine,
e le devasta con violento turbine il soffiare dei venti.
E poi, la razza orrenda delle fiere, nemica
del genere umano, perché la natura in terra e in mare
la alimenta e la accresce? Perché le stagioni apportano
malattie? Perché la morte prematura s'aggira qua e là?
E inoltre, il bimbo, come un navigante gettato sulla riva
da onde furiose, giace a terra nudo, incapace di parlare,
bisognoso d'ogni aiuto per vivere, appena la natura lo fa uscire
con sforzi fuori dal ventre della madre alle rive della luce,
e riempie il luogo di un lugubre vagito, come è giusto
per uno che nella vita dovrà passare per tanti mali.
Ma crescono i vari animali domestici, gli armenti e le fiere,
né c'è bisogno di sonaglini, per nessuno occorre
la carezzevole e balbettante voce dell'amorevole nutrice,
né essi richiedono vesti diverse secondo le stagioni;
infine, non hanno bisogno di armi, né di alte mura,
per proteggere i propri averi, giacché per tutti tutto
largamente producono la terra stessa e la natura artefice.
( De rerum natura, V, vv. 195-234 )
Tale interpretazione della natura ed il fatto che il poema termini con un evento tragico quale la peste di Atene non lasciano dubbio alcuno circa il pessimismo lucreziano.
Questi due autori latini del I secolo a.C. sono i capostipiti di due filoni di segno opposto che attraversano la letteratura di tutte le epoche: la concezione di una natura insensibile alle esigenze umane ha enorme rilievo nell'opera di Giacomo Leopardi ( di cui si tratterà in seguito ); quella della natura come rifugio del poeta che rifiuta la realtà è invece alla base della poetica di Giovanni Pascoli.
Un dato importante che pone quest'ultimo a buon diritto nel solco tracciato dalla tradizione virgiliana è il fatto che la sua prima raccolta di poesie, Myricae, prenda il nome da un termine che si incontra in uno dei primi versi della IV Bucolica.
Pascoli vive un'esistenza travagliata da numerosi lutti familiari, il più grave dei quali è rappresentato dalla morte del padre il 10 agosto 1867, quando il poeta aveva solo dodici anni. Questo trauma infantile arresta la crescita di Pascoli sotto molti aspetti della vita sociale, impedendogli di raggiungere traguardi quali il matrimonio e l'allontanamento dalla sorella Maria, chiamata con affetto Mariù, con la quale trascorrerà tutta l'esistenza. Questa chiusura del poeta all'interno della sua famiglia più intima si esprime in poesia attraverso il concetto del «nido». La sua poetica verte anche sulla tematica del fanciullino, sulla teoria cioè che ogni persona conservi anche da adulta e da anziana la propria sensibilità di bambino. Per questa ragione il poeta è anche veggente: tramite una visione infantile della realtà, egli è in grado di coglierne aspetti invisibili a chi non dia ascolto al fanciullino. Pascoli guarda con candore alla natura e la descrive in termini specifici e persino con onomatopee, pur riuscendo a mantenere un registro elevato. Attraverso il linguaggio della quale crea il proprio simbolismo, com'è evidente nella poesia Il gelsomino notturno, nella quale le descrizioni di fiori, frutti ed altri elementi naturali alludono a quella dell'atto sessuale, realtà alla quale il poeta guarda con un certo distacco, indice del tormento interiore vissuto da Pascoli.
Il Gelsomino notturno (dai Canti di Castelvecchio)
E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento . . .
È l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti;
si cova, dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
Prendendo in esame il filone pessimistico, si giunge in letteratura italiana a Giacomo Leopardi: nato nel 1798 a Recanati, vive un'infanzia difficile subendo un'educazione rigorosissima da parte della famiglia, al punto da definire la propria abitazione paterno ostello, e vivendo un rapporto di amore-odio con lo studio. Leopardi ha sempre sostenuto una concezione pessimistica della realtà, in un primo tempo mitigata dall'idea di una natura benigna che, attraverso le illusioni, celasse all'uomo l'«orrido vero». Al primo Leopardi appartiene anche il concetto del pessimismo storico: gli uomini, nel corso della storia, si sono allontanati dalla via che la natura benigna tracciò loro per limitarne le sofferenze: per questo motivo gli antichi erano più felici e più forti fisicamente, semplicemente perchè erano più illusi. In seguito, il poeta approda alla fase del celeberrimo pessimismo cosmico: la natura non opera più per il bene delle sue creature, secondo una concezione finalistica, ma è soltanto un ente regolato da leggi meccaniche al quale importa unicamente la sopravvivenza del mondo, secondo una concezione meccanicistica e materialistica. Troviamo queste idee espresse in alcuni versi dei Grandi idilli e soprattutto nelle Operette morali, una delle quali, Dialogo della Natura e di un Islandese, affronta direttamente il problema. Alle incalzanti domande dell'Islandese, la Natura risponde facendo riferimento alle teorie meccanicistiche sopra citate.
Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
( Dialogo della Natura e di un Islandese )
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
( A Silvia, vv. 36-39 )
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E' lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
( Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, vv. 53-60 )
E' interessante confrontare il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia con il II Idillio di Teocrito, poiché, mentre la protagonista di questo, Simeta, immagina una partecipazione della luna ai propri rituali magici (ricorre infatti nella poesia il ritornello «Pensa da dove è nato il mio amore, Luna divina»), il protagonista di quello, il pastore errante, comprende l'estraneità della luna - intesa come sineddoche di tutta la natura – alle vicende umane.
O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali.
Uscir di pena
E' diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata
Se te d'ogni dolor morte risana.
( La quiete dopo la tempesta, vv. 42-54 )
Simile al pensiero di Giacomo Leopardi è quello di Arthur Schopenhauer: per entrambi la vita è un «pendolo fra la noia ed il dolore» ed ogni piacere deriva dalla cessazione di un dolore precedente (piacer figlio d'affanno).
Il filosofo di Danzica ritiene che ogni creatura vivente, quindi la totalità del mondo, sia oggettivazione della voluntas, la volontà di vivere (Wille zum leben), un istinto di autoconservazione, un impulso del tutto irrazionale (per questa caratteristica della voluntas, alcuni hanno visto in essa un antecedente dell'inconscio freudiano) che Schopenhauer ritiene sia nient'altro se non la cosa in sé, tanto ricercata da Kant quanto mortificata dagli idealisti. Essa non è inattingibile e l'unico modo per raggiungerla è l'autointuizione noumenica che di essa ci fornisce il nostro corpo: l'uomo infatti non è una «testa d'angelo alata senza corpo». L'accesso alla cosa in sé ci permette di squarciare il velo di Maya (termine che deriva dalle filosofie orientali, che Schopenhauer ammirava), cioè della rappresentazione. Ed è proprio sulla dicotomia fra volontà e rappresentazione che è costruita tutta la filosofia schopenhaueriana. Mentre prima in Kant il fenomeno godeva di una certa importanza poiché, essendo il noumeno irraggiungibile, l'esperienza sensibile era l'unica che l'uomo potesse provare, ora in Schopenhauer si è finalmente riusciti a superare il velo della rappresentazione raggiungendo la cosa in sé. Ciò però rappresenta un'amara sorpresa, poiché si viene a scoprire che il noumeno, cioè la voluntas, è una cosa negativa: la vera sostanza del mondo è il male! Tale volontà è inconscia e si serve della ragione soltanto come mezzo per raggiungere i propri scopi; è unica, poiché esiste al di fuori delle categorie di spazio, tempo e causalità e si oggettiva per gradi: - influenza neoplatonica – prima negli archetipi (le idee platoniche), poi in ogni creatura ed oggetto. Essendo al di fuori del tempo, la volontà è anche eterna, ed essendo irrazionale, cioè al di fuori della categoria di causa, è anche assurda e cieca: ogni manifestazione della volontà non riesce a capire di essere solo parte della volontà stessa, riconoscendo solo sé stessa, e vede perciò negli altri solamente strumenti da sfruttare per la propria sopravvivenza, non altre manifestazioni della stessa volontà. Dato che tale volontà è maligna, deve essere combattuta, trasformata cioè in noluntas: per compiere ciò, Schopenhauer propone due soluzioni: l'etica della pietà e l'ascesi, quest'ultima di derivazione orientale. La prima consiste nel giungere alla comprensione del fatto che ciò che mi sembra altro da me in realtà non lo è, poiché siamo tutti oggettivazioni fenomeniche della volontà: è quindi una forma nobile di altruismo disinteressato.
La seconda propone l'annullamento della volontà attraverso il raggiungimento del nirvana. Schopenhauer condanna invece il suicidio, ritenendolo, anziché una rinuncia alla volontà, una maggiore affermazione di essa, poiché compiendo tale gesto un individuo rifiuta non la volontà ma le proprie condizioni di vita insoddisfacenti.
Ci sono però alcune differenze fra le Weltanschauungen dei due pensatori.
Il pensiero filosofico schopenhaueriano è più complesso di quello di Leopardi: quest'ultimo ammette il suicidio, ritiene che soltanto la condizione umana sia malvagia, non l'intero mondo, e percepisce – similmente ad Agostino – il male come assenza di bene. Questa concezione è più pessimistica di quella del filosofo di Danzica, perché quest'ultimo pone una voluntas negativa lasciando la speranza che possa essere convertita in qualcosa di positivo, mentre in Leopardi ciò non potrebbe avvenire.
Sul filone pampsichistico, si inserisce la Ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge.
In questa poesia la natura è un organismo che vive in buona armonia con l'uomo, a meno che egli non pecchi di empietà nei suoi confronti, come nel caso dell'uccisione dell'albatro, compiuta senza una precisa ragione dal vecchio marinaio. A tale atto di υβρις segue una vendetta molto dura da parte della natura: la Morte, divinizzata, vince l'anima dei marinai dell'equipaggio, i quali periscono in atroci sofferenze, la Vita-in-morte,anche lei sotto forma di divinità, vince l'anima del vecchio marinaio, il quale è costretto a soffrire fino al momento dell'apparizione di serpenti marini dai molti colori e del pentimento del protagonista. Questo momento fa da spartiacque nella vicenda: prima intorno al vascello si addensavano creature mostruose e spiriti maligni descritti con il gusto romantico per il cupo ed il mostruoso, dopo, le creature acquistano una valenza positiva: guidano il marinaio sulla buona strada, in senso sia reale, sia figurato. Il protagonista apprende in tal modo il rispetto per la natura, dietro la quale è nascosto il divino, ma è condannato a raccontare la propria storia in eterno. La ballata è quindi composta ad anello.
Essa è un racconto nel racconto: si apre con il convitato del matrimonio che non riesce a sottrarsi al racconto del vecchio marinaio, attirato dal potere magico di costui, e si chiude con lo stesso convitato che si dilegua «più triste ma più saggio divenuto».
La grandezza di Coleridge risiede nel descrivere scene surreali e soprannaturali rendendole il più simili possibile al racconto di un'avventura realmente accaduta. A questo scopo compie un lavoro di epurazione del lessico, cercando di giungere ad una lingua «antica come l'antico marinaio, arcaica e semplice,densa di tutta la meraviglia dei libri e dei viaggi. [ ... ] E' la lingua ideale, perduta nella diversificazione sociale, storica, individuale: ritrovata ogni volta dal poema. E' la lingua della prima parola con cui l'uomo spezza il silenzio» (Ginevra Bompiani).
The ice was here,
the ice was there,
the ice was all around:
it cracked and growled,
and roared and howled,
like noises in a swound!
( vv. 59-62 )
(traduzione di Mario Luzi:
Il ghiaccio era dovunque,
era qua, era là:
era tutto all'intorno;
crepitava, gemeva ed ululava!
Come, svenuti, s'ode un vano rombo. )
The very deep did rot: O Christ!
That ever this should be!
Yea, slimy things did crawl with legs
upon the slimy sea.
( vv. 123-126 )
(traduzione di Mario Luzi:
Anche il profondo imputridiva, o Cristo!
Che dovesse accaderci tale cosa!
Strisciavano vischiosi sulle zampe
corpi informi per l'acqua vischiosa. )
I pass, like night, from land to land;
I have strange power of speech;
that moment that his face I see,
I know the man that must hear me:
to him my tale I teach. .
( vv. 586-590 )
(traduzione di Mario Luzi:
Di terra in terra migro come l'ombra;
strano potere è nelle mie parole;
subito, appena ch'io ne veda il volto,
so l'uomo che mi deve dare ascolto:
A lui fo il mio racconto)
Nella corrente del Roman
ticismo, troviamo anche Caspar David Friedrich. Questo artista, nel dipingere un paesaggio, cerca di farne risaltare il sentimento che esso trasmette all'uomo. In linea con la poetica del sublime, ritrae situazioni in cui si manifesta la potenza scatenata degli elementi della natura. Sovente, tale grandezza è posta in contrasto con la piccolezza dell'essere umano e della sua condizione esistenziale: in tal modo l'uomo ha l'impressione di trovarsi ad essere un minuscolo puntino circoscritto immerso in un universo infinito e maestoso, capace di suscitare per questo sensazioni sublimi. Raffigurazioni in grado di esemplificare chiaramente quanto affermato sono il Viandante sul mare di nebbia, il Monaco in riva al mare, Spiaggia Paludosa ed il Mare di ghiaccio, che richiama la ballata di Coleridge.
Per comprendere appieno tale poetica, essa può essere confrontata con quella del pittoresco, esponente maggiore della quale fu John Constable, i cui quadri sono veri e propri idilli in cui la natura è pacifica amica dell'uomo.
L'arte di Friedrich subisce anche gli influssi della poesia cimiteriale,
sapientemente trasposti sulla tela nel caso dell'Abbazia nel querceto, opera valida anch'essa per operare un confronto fra le dimensioni umane e quelle degli elementi naturali, in questo caso gli alberi, ribadendo così il motivo dominante della pittura di Friedrich: il sentimento della finitudine umana nell'infinito della natura.
APPROFONDIMENTO FILOSOFICO
Riflessioni sull'accostamento operato da Paul Ricoeur di Marx, Nietzsche e Freud come «maestri dei sospetto»
Il filosofo Pau
l Ricoeur interpreta Marx, Nietzsche e Freud come "maestri del sospetto". Tale definizione mette in evidenza il fatto che questi tre pensatori hanno cercato di far apparire la vera essenza della coscienza, quindi della realtà, distruggendo molte delle certezze tradizionali della loro epoca. Da ciò si origina la dissacrazione della religione, spiegandola come un sistema che doveva fungere da instrumentum regni (l' "oppio de popoli" marxiano), come un "platonismo per il popolo" (Nietzsche), o come un insieme di rituali collettivi volti all'appagamento del desiderio atavico di protezione dell'uomo, nella dialettica figlio (umanità) – padre (dio), secondo l'interpretazione di Freud. Così scrive Ricoeur, citando Heidegger: "La «distruzione» dei mondi retrogradi è un compito positivo, ivi compresa la distruzione della religione, nella misura in cui essa è, secondo il detto di Nietzsche, un «platonismo per il popolo»".
Dopo la distruzione delle certezze illusorie che hanno soffocato la verità, è però necessario che essa sorga nella sua più chiara espressione: da quest'esigenza nasce infatti la frase nietzschiana: "Morti son tutti gli dei: ora vogliamo che il superuomo viva!" (Così parlò Zarathustra, parte prima, della virtù che dona, par. 3). E per dare vita al superuomo è necessario attenersi alla realtà senza cercare sovraterrene certezze, restando quindi fedeli alla terra. La realtà va perciò analizzata in maniera ermeneutica, e ciò viene compiuto dai tre pensatori in questione, ognuno dei quali ha preso in esame tutto il reale, non solo una specifica branca dello scibile, come lo studio scolastico dei tre filosofi potrebbe far credere. Ricoeur puntualizza ciò scrivendo: "Siamo ancora troppo attenti alle loro differenze, cioè, in definitiva, ai limiti imposti a questi tre pensatori dai pregiudizi della loro epoca, e siamo soprattutto vittime della scolastica in cui vengono chiusi dai loro epigoni: Marx cioè è relegato nell'economismo marxista e nell'assurda teoria della coscienza-riflesso, Nietzsche viene tirato verso un biologismo se non addirittura verso un'apologia della violenza, Freud è accantonato nella psichiatria, ridicolmente camuffato con un pansessualismo semplicistico".
Tutti e tre compiono un processo analitico a ritroso, partendo cioè dalle manifestazioni fenomeniche della realtà (che possono in prima istanza apparire disordinate e prive di senso) per giungere ai fattori che le hanno originate e ai processi attraverso i quali esse acquistano l'aspetto con cui appaiono.
Tenendo conto di queste dinamiche, comprendiamo come la mancanza di ordine e di senso ravvisata in precedenza fosse solo apparente. Tutti e tre i filosofi hanno analizzato la propria materia d'indagine con il metodo che si esplicita in Freud nell'interpretazione dei sogni, quindi nella comprensione dei fenomeni che hanno dato una parvenza irrazionale a ricordi reali. Questo è il significato della complessa frase di Ricoeur : "A partire da loro, la comprensione è ermeneutica: cercare il senso, ormai, non significa più sillabare la coscienza del senso, ma decifrare le sue espressioni".
BIBLIOGRAFIA
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Dario Del Corno – Letteratura Greca, Principato
Luca Canali – Camena, Einaudi Scuola
Luciano Perelli – Storia della letteratura latina, Paravia
Giovanna Garbarino, - Opera, Paravia
Bruno Snell – L'Arcadia: scoperta di un paesaggio spirituale, in La cultura Greca e le origini del pensiero europeo
Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria – La letteratura, Paravia
Ginevra Bompiani (a cura di) – Samuel Taylor Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, traduzione di Mario Luzi, BUR
Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero – Protagonisti e testi della Filosofia, Paravia
Rielaborazione di testi di Storia dell'arte italiana a Cura di Clara Calza, Saverio Hernandez, Edoardo Varini – Lezioni di Arte, Electa Bruno Mondadori
Per l'approfondimento filosofico:
Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero – Protagonisti e testi della Filosofia, Paravia
Paul Ricoeur -Il conflitto delle interpretazioni, traduzione italiana, Jaca Book, Milano
Friedrich Wilhelm Nietzsche – Così parlò Zarathustra, Adelphi
Valerio Toldonato